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Leviatano parte seconda, i testi del terzo episodio

Ottobre 1940. Atlantico settentrionale – circa 1000 miglia dalla costa africana. Sono le prime battute della Seconda Guerra Mondiale. C’è un piroscafo belga in rotta verso la Liberia. A bordo ci sono marinai e armamenti della Marina di Sua Maestà Britannica. Nella notte il piroscafo incrocia un sommergibile italiano, il Cappellini. Partono dei colpi di cannone. Il piroscafo viene colpito e comincia ad affondare. L’equipaggio si mette in salvo su una lancia, ma siamo in mezzo all’Atlantico – la probabilità di incrociare un’altra nave è abbastanza remota.

Allora il capitano del Cappellini, Salvatore Todaro, dà ordine di rimorchiare la scialuppa coi soldati nemici fino alla costa più vicina. Ma con onde alte come case di tre piani l’operazione risulta difficile. Todaro allora accoglie tutti e 21 i membri dell’equipaggio nel poco spazio disponibile a bordo – soldati che, ricordiamolo, aveva appena preso a cannonate – e li porta, incolumi, fino alle Azzorre.

Il Capitano Todaro non è un’eccezione. Le cronache militari, fin dai tempi della battaglia di Nasso tra Ateniesi e Spartani, sono piene di episodi analoghi: ufficiali di Marina che interrompono le operazioni per salvare nemici finiti in balia delle onde. La ragione è semplice. Chiunque si sia trovato almeno una volta in mezzo a una tempesta in alto mare lo sa: il mare è l’ultimo confine, un luogo ostile per eccellenza, devastante nella sua forza, imprevedibile nella sua violenza. E’ per questo motivo che in mare non vigono le stesse regole che vigono sulla terra ferma. Sul mare l’uomo sa di essere in balia di forze più grandi. Per questo chi va per mare è per così dire costretto alla solidarietà – e le divisioni e la politica e le guerre non contano più niente; perché in mare siamo, letteralmente, tutti nella stessa barca.

Non a caso, il dovere assoluto di salvare vite umane in mare – non importa se amici o nemici – è stato uno dei primi capisaldi dei trattati internazionali del XX secolo – un dovere sancito ancora oggi dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

Fonte: LINK

Eppure c’è sempre stato – e c’è ancora – chi pensa che questa legge di umanità, questo stato di eccezione, questo imperativo morale debba piegarsi alla contingenza politica. E che chi salva vite umane sia un irresponsabile, o peggio, un criminale.

Rientrato alla base di Bordeaux, il Capitano Todaro viene convocato d’urgenza dai suoi superiori. La notizia del salvataggio ha generato forti malumori. Si parla di corte marziale. Siamo in guerra – in fin dei conti. “Un ufficiale tedesco – dice un ammiraglio – non avrebbe mai commesso una simile imprudenza”. La risposta di Todaro è secca: “Gli altri – dice il Capitano – non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle” (Fonte: LINK )

Todaro dice una cosa fondamentale: Salvare i naufraghi è una questione di civiltà. Su una cosa però si sbaglia. Un capitano tedesco farebbe altrettanto – anche se questo significa rischiare la galera.

“Salvare i naufraghi è prima di tutto un dovere”, dice il Capitano tedesco Stefan Schmidt. Schmidt sa che cosa vuol dire fare il proprio dovere – anche se questo comporta dei rischi. Dopo aver salvato 37 persone da un barcone nel Canale di Sicilia, si è visto mettere le manette ai polsi dalle autorità italiane. E si è sentito chiamare “scafista” e “trafficante di uomini”.

Oggi, niente di nuovo. Ma non lo era nel 2004, quando la sua nave, un cargo dell’Organizzazione non Governativa tedesca Cap Anamur, fu sequestrata e l’equipaggio arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. All’epoca la vicenda generò un mezzo caso diplomatico, con esponenti del governo tedesco che chiamavano Roma dicendosi “esterrefatti e indignati” e chiedevano l’immediata liberazione del comandante. (Fonte: http://www.spiegel.de/politik/ausland/cap-anamur-wieczorek-zeul-wirft-italien-unertraegliche-hinhaltetaktik-vor-a-308846.html)

Cinque anni ci sono voluti perché Schmidt e il responsabile dell’ONG Elias Bierdel fossero scagionati da tutte le accuse. Ma intanto il caso della Cap Anamur ha generato un precedente importante – un precedente che avrà un ruolo fondamentale in un’altra guerra di mare, diversa da quella in cui combattevano ufficiali gentiluomini come il Capitano Todaro – una guerra di pirati e avventurieri, di spie e delatori, una guerra fredda e parecchio sporca, come le acque del Canale di Sicilia in inverno.

E la prima vittima di una guerra, si dice, è sempre la verità.

Il primo personaggio di questa spy-story è indubbiamente degno di un romanzo di Tom Clancy: Christopher Catambrone è un eccentrico milionario originario della Louisiana ma con radici in Calabria. Poco più che ventenne comincia a lavorare per una compagnia di assicurazioni che copre i contractors in aree di crisi: Iraq, Afghanistan, Somalia. È un assicuratore un po’ particolare: invece di calcolare premi e valutare danni, accompagna convogli armati e organizza la liberazione di ostaggi. Un uomo d’azione. (Fonte: LINK)

E rimane un uomo d’azione anche quando, nell’estate del 2013, compra uno yacht per fare una crociera nel Mediterraneo colla famiglia. Mentre lo yacht solca il Canale di Sicilia Catambrone racconta d’aver visto una giacca a vento galleggiare nell’acqua. Il comandante dello yacht gli spiega che in quel tratto di mare si trovano sempre i resti dei barconi andati a fondo: vestiti, giocattoli, a volte corpi.

Catambrone, l’assicuratore col giubbotto antiproiettile, abituato a vedere la vita umana come un asset, è costernato: gli pare impossibile che non ci sia modo di impedire questa strage – un modo per salvare uomini, donne e bambini da una morte orribile. Da uomo d’azione gli basta qualche minuto per trovare una soluzione: li salverà lui.

Nel giro di pochi mesi compra una nave, la arma e mette al comando proprio lo skipper della sua crociera – un veterano della Marina maltese. E fonda un’Organizzazione Non Governativa, la Migrant Offshore Aid Station. È la prima ONG specializzata nel salvataggio di naufraghi nel Mediterraneo.

Questo è l’anno in cui nel Mediterraneo Centrale naviga la missione italiana Mare Nostrum. Ma Catambrone e i suoi hanno lo stesso molto da fare: Nei primi cinque mesi in mare MOAS salva circa 5.000 persone. A chi gli chiede perché lo faccia Catambrone risponde quasi con stizza: “Perché salvare vite umane è un dovere e chi pensa il contrario è un razzista e non merita un posto nella nostra società”.

Pochi mesi dopo Mare Nostrum chiude le operazioni perché, dicono vari governi europei, è diventata un “pull factor”, un fattore di attrazione. La missione viene sostituita da un’operazione europea con circa un decimo dei mezzi. A questo punto MOAS è praticamente sola in mare. Ma non per molto.

Proprio mentre, nel novembre 2014, il governo italiano annuncia la fine di Mare Nostrum, un 42enne antiquario e mobiliere berlinese sta camminando con alcuni amici lungo il vecchio tracciato del Muro . Harald Höppner è nato a Berlino Est e, dice, sa bene che cosa vuol dire essere chiuso in una gabbia. E’ nato e cresciuto su una frontiera – una frontiera che può costare la vita. (Fonte: LINK)

E mentre Höppner e i suoi amici camminano lungo il Muro, il discorso cade sul tema dei naufragi nel Mediterraneo. Senza Mare Nostrum i morti in mare potrebbero aumentare a dismisura, si dicono Höppner e i suoi amici. E non c’è da credere a chi sostiene che se aumenta il rischio non verrà più nessuno. Del resto – dice Höppner – quelli che volevano passare oltre il Muro non li fermavano neanche le pallottole.  

E allora? Che fare? E’ un momento. Un’ illuminazione. Qualche soldo da parte ce l’ha, dice l’antiquario: i suoi due negozi in centro a Berlino vanno alla grande. E conosce pure un paio di spedizionieri e armatori. Pochi giorni dopo insieme ad un socio compra un peschereccio dismesso per 60.000 euro e lo rimette in sesto. E fonda l’organizzazione “Sea Watch”. All’inizio del 2015 la Sea Watch 1 salpa dal porto della Valletta.

E da subito Sea Watch ha molto da fare. Höppner e i suoi amici avevano ragione: Con o senza Mare Nostrum il numero di persone che tenta di passare il mare resta alto. Nell’aprile del 2015 un peschereccio con 1.000 persone a bordo cola a picco – è la strage più ingente del dopoguerra. E’ un segnale d’allarme che porta ad una grande mobilitazione internazionale. Agli avventurieri umanitari come Catambrone e Höppner si uniscono adesso grandi organizzazioni internazionali con decenni di esperienza e decine di migliaia di collaboratori come Medici senza Frontiere e Save the Children. Arrivano organizzazioni e volontari dalla Germania, dall’Olanda, dalla Spagna. Tra il 2015 e il 2016 la flotta della cosiddette ONG arriverà a contare una dozzina tra imbarcazioni, aerei e droni da ricognizione. E’ uno dei più grandi sforzi umanitari del dopoguerra. (Vedi: LINK 1 e LINK 2)

Ma nonostante gli sforzi delle ONG la situazione nel Mediterraneo Centrale peggiora. La rotta libica è infatti diventata più pericolosa. Il motivo principale è che nel 2015 cambia la strategia degli scafisti.

Dall’anno prima la Libia è precipitata in una spirale di violenza con varie milizie che si contendono il territorio. E le milizie fanno i soldi col contrabbando – di droga, di armi e anche di persone. Gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana diventano così merce di scambio – venduti come schiavi o trasportati come cargo. E anche il business degli scafi diventa roba loro, delle milizie – un business molto redditizio, ma anche rischioso.

Nel 2015 l’Unione Europea ha infatti lanciato la missione navale Eunavfor Med, con uno scopo: smantellare la rete degli scafisti. Come? Requisendo e distruggendo i barconi. L’idea pare giusta, solo che c’è un problema: che senso ha salpare con un barcone di legno o un peschereccio se si sa che questo verrà distrutto? Allora molto meglio usare dei gommoni usa e getta da due lire. Ci sono ditte cinesi che li producono e vendono online. E li chiamano “refugee Dinghies”, “gommoni per rifugiati”. (Fonte: (LINK)

E questo è esattamente quello che fanno gli scafisti. I “Dinghies” sono fatti per arrivare al limite delle acque territoriali libiche. Lì poi ci sono le navi e quelle – dicono gli scafisti a chi scappa dalla Libia – vi possono salvare.

Ma quali navi? Le missioni europee Triton e Eunavfor Med incrociano molto più a Nord, quasi in acque italiane. Casualità. O forse una strategia per evitare il “pull factor”, come suggerisce uno studio della Goldsmith University di Londra. Ma i gommoni partono lo stesso – e vanno a fondo lo stesso. Anzi, ne partono sempre di più. E così le imbarcazioni delle ONG – e, in parte, anche le navi della guardia Costiera italiana – sono costrette ad avvicinarsi sempre di più al confine delle acque libiche. Si crea così un sistema perverso in cui sia i naufraghi che le ONG diventano pedine di un gioco – un gioco al massacro, che sta per diventare – se possibile – ancora più sporco. (Fonte: LINK)

Certo, se non ci fossero navi al largo della Libia il gioco non funzionerebbe – si dice qualcuno. Sì, magari lì per lì affogano un po’ di persone. Ma a lungo andare le partenze si fermerebbero. L’idea non è nuova. Vi ricorderete: lo avevano detto anche ai tempi di “Mare Nostrum”. La teoria è smentita da vari studi. Ma non importa: mentre il numero di partenze e il numero di morti in mare viaggia verso nuovi, terrificanti record, sempre più persone in Europa dicono una sola cosa: le ONG devono sparire. (Fonte: LINK)

E come? Volontari come Catambrone e Höppner, organizzazioni come “Medici senza frontiere” e “Save the Children” sono eroi popolari che agiscono per spirito umanitario. Ma se così non fosse? Se invece gli eroi senza macchia e senza paura avessero un secondo fine? E se fossero tutti parte di un piano?

Gli eroi, si sa, sono come acrobati: tutti applaudiamo il loro coraggio ma, sotto sotto, l’emozione più grande è vederli cadere.

Tutti abbiamo qualche segreto. E se qualcuno vuole portarlo alla luce basta che guadagni la nostra fiducia. E qui entra in gioco la IMI Security. IMI Security è un’azienda italiana per la sicurezza in mare fondata da Christian Ricci, un ex ufficiale della Guardia Costiera. L’azienda ha già lavorato in missioni anti-pirateria. È un partner con esperienza – così pensa l’armatore della Vos Hestia, la nave dell’organizzazione umanitaria “Save the Children”. Un partner di cui ci si può fidare.

Solo che Ricci non vede di buon occhio l’attività delle ONG: anche se hanno buone intenzioni i volontari finiscono per avvantaggiare gli scafisti – pensa l’ ex ufficiale – non del tutto a torto. E pensa che le ONG dovrebbero impegnarsi di più per fermare i traffici.

Dove Ricci vede un problema tecnico-giuridico, alcuni suoi colleghi fiutano un’opportunità politica. Nell’ottobre 2016 Pietro Gallo e Floriana Ballestra, due ex poliziotti inseriti nel team della IMI Security contattano i servizi segreti e poi due politici: Alessandro Di Battista del “Movimento 5 Stelle” e il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Vogliono denunciare una cosa clamorosa: le ONG collaborano cogli scafisti. (Fonte: LINK)

Dibattista non risponde. Il segretario della Lega – riferisce Gallo in un’intervista rilasciata quest’anno al Fatto Quotidiano – è invece molto interessato alla storia dei due ex poliziotti e chiede loro di passare foto e registrazioni al suo ufficio (una circostanza confermata in un question time alla Camera dallo stesso Salvini). Fatto strano: Salvini non fa uso pubblico delle informazioni che riceve dai contractor. Almeno non subito. Sembra aspettare il momento giusto. E il momento arriverà presto. (Fonte: (LINK)

Perché una volta lanciata, la corazzata anti-ONG viaggia veloce. A ottobre 2016 parte la denuncia dei due ex poliziotti. È opportuno ricordare che a questo punto la denuncia è molto specifica, come Gallo tiene a precisare – e in sostanza è questa: quando soccorrono un barcone le ONG non fanno nulla per identificare o far arrestare gli scafisti. Omessa denuncia di reato, si chiama. Niente di più, niente di meno.

Poche settimane dopo, nel novembre 2016, un think-tank olandese vicino ad ambienti della destra anti-europeista pubblica un articolo (LINK) in cui si ipotizza per la prima volta la collusione tra le ONG e gli scafisti – l’articolo si diffonde rapidamente nei forum della destra anti-immigrazione. Quasi in contemporanea la teoria figura anche in un rapporto confidenziale dell’agenzia europea per la sicurezza delle Frontiere Frontex (LINK). La cosa resta però confidenziale per poco: passano pochi mesi e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri parla apertamente colla stampa di alcune non meglio definite irregolarità nel lavoro delle organizzazioni (Fonte: LINK).

Ma – sorpresa – è in Italia che il tamtam contro le ONG comincia a mostrare i suoi veri effetti.

Una buona spy story d’azione non è tale se non c’è un ligio funzionario che per eccesso di zelo o di ego è pronto a tutto per far regnare l’ordine. E questo è il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro.  

Zuccaro è un uomo di punta dell’antimafia con un passato sul campo nella Guardia di Finanza. Tra i colleghi ha fama di magistrato integerrimo, rigoroso, compassato.

Il suo rigore tende però a venire meno quando sul banco degli imputati ci sono degli stranieri – magari dei richiedenti asilo, come ha ricostruito il giornalista Francesco Floris. Così nel 2014 Zuccaro gestisce per esempio il caso di un 21enne siriano sospettato di terrorismo, Morad Al Ghazawi. L’intera accusa si basa su una foto di un documento trovata sul suo cellulare. Secondo Zuccaro e il suo team è un attestato dello Stato Islamico. In realtà è un meme che riguarda un cantante siriano. Ma tanto basta: Al Ghazawi si fa 16 mesi di carcere prima di essere assolto perché il fatto non sussiste. (Fonte: LINK)

Ma nonostante il piccolo inciampo il suo astro è ancora in ascesa quando, all’inizio del 2017 avvia un’indagine conoscitiva sull’attività delle ONG. E con rapidità formidabile, alla fine di marzo può già presentare gli esiti della sua inchiesta davanti alla commissione parlamentare sull’attuazione del piano Schengen. E in virtù della stima di cui gode, le sue parole hanno un peso considerevole (Fonte: LINK).

E che cosa dice, il rigoroso magistrato? Dice che non capisce come mai ci sia un “proliferare così intenso” di missioni umanitarie davanti alle coste libiche. Il pensiero che possa essere per via dei tanti morti apparentemente non lo sfiora.

Ma ci sono sì o no contatti tra ONG e scafisti? – incalzano i membri della commissione. Qui Zuccaro inizia una strana circonlocuzione che vorrei riportare letteralmente, perché mostra efficacemente quanto è sicuro dei risultati della sua inchiesta a questo punto: “Vedete, sul punto, sembra facile poterlo accertare, ma è tutt’altro che facile. Lo dico perché se qualcuno chiama prima una ONG e l’ONG interviene e poi ci si mette al sicuro chiamando anche la centrale operativa, io non saprò mai esattamente qual è stato il primo contatto, perché ovviamente non ho sotto controllo i telefoni che vengono chiamati. Quindi, è oggetto di una nostra indagine, ma non è facile riuscire ad accertarlo, eppure varrebbe la pena di farlo perché questo ci darebbe indicazione non necessariamente – attenzione – di un coinvolgimento, ma del fatto che effettivamente la possibilità di accedere facilmente, attraverso la consultazione di internet, a questi punti di contatto fa scattare un collegamento di fatto, obiettivo, tra gli organizzatori del traffico e queste ONG.”

Traduzione: non lo so. Come del resto dice esplicitamente di non sapere nemmeno come si finanzino le ONG.

Non lo sa, ma qualche idea se l’è fatta. E non vede l’ora di condividerle col mondo – magari lontano dalle sede istituzionali. Perché nelle settimane successive il ligio magistrato che parla solo sulla base di prove giudiziarie si toglie la toga e diventa un tribuno del popolo.

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E’ inarrestabile, Zuccaro. E ad ogni intervista a ogni apparizione televisiva fioriscono nuove ipotesi di lavoro, nuove teorie, nuovi scenari. Non ha più dubbi, il magistrato. Quello delle ONG è “gravissimo fenomeno criminale” paragonabile alla mafia. E all’improvviso la teoria del contatto tra ONG e scafisti – formulata molto cautamente davanti alla commissione un paio di settimane  prima – diventa certezza. (Fonte: LINK

Dice che c’è una registrazione in lingua araba che documenta una partenza concordata tra ONG e trafficanti. Strano: pochi giorni prima alla commissione aveva detto di non avere i telefoni sotto controllo. E la fantomatica registrazione non finirà mai agli atti.

Dalla prima – forse condivisibile – accusa, cioè che le ONG non collaborano a identificare gli scafisti, si passa a parlare così di giri di capitali, di trafficanti che finanziano i salvataggi e di misteriosi personaggi con valige piene di soldi che salgono di notte a bordo delle navi. Ormai siamo veramente alla spy story. Ci manca solo che parli di complotto internazionale per destabilizzare l’economia italiana.

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Come non detto.

Il metodo Zuccaro in effetti ha i suoi vantaggi. Così per esempio io potrei dire che non ho prove giudiziarie per affermarlo, però ho la certezza, che mi viene da fonti di conoscenza reale ma non utilizzabile processualmente che il Procuratore di Catania è un razzista mitomane e che dovrebbe essere rimosso dalla carica. Potrei.

All’epoca però le teorie del magistrato vengono accolte con entusiasmo bipartisan da tutto il mondo politico: dal capo della Lega Matteo Salvini fino al segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, tutti dicono una sola cosa: C’è qualcosa di molto sordido nel lavoro delle organizzazioni umanitarie. (Fonte: LINK)

Lo stesso si può dire dei media. Mentre fino all’aprile 2017 le teorie del complotto riguardanti le ONG erano limitate a forum, blog e media della destra anti-immigrazione, dal maggio di quell’anno quasi tutti gli organi di stampa parlano di “contatti sospetti”, “finanziamenti poco chiari” e di “rete criminale”.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che i bilanci delle organizzazioni sono liberamente consultabili online e che – almeno per quanto riguarda le ONG tedesche – tutti i conti sono regolarmente sottoposti al controllo del ministero delle Finanze. Oppure magari basterebbe chiedere a un’altra procura se effettivamente vi siano, come sostiene Salvini, informazioni dei certe servizi segreti su contatti tra ONG e scafisti.

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Questo è il procuratore di Siracusa Francesco Paolo Giordano, anch’egli coinvolto nell’indagine conoscitiva. Ma la sua voce, come quella dei pochi giornalisti critici che mettono in dubbio le teorie di Zuccaro, sono sommerse dall’improvviso afflato di legalità che scuote il paese.

Un afflato di legalità che arriva fino ai vertici del governo.

Non è che il governo Gentiloni finora abbia ignorato la questione. In realtà ha già lavorato parecchio per fermare i flussi migratori, ma lo ha fatto prevalentemente sull’altra sponda del Mediterraneo, in Libia. Nel febbraio del 2017 Gentiloni e il presidente del governo di accordo nazionale di Tripoli Fayez al Serraj firmano un documento di intesa (Fonte: https://openmigration.org/analisi/tutto-quello-che-ce-da-sapere-sullaccordo-italia-libia/) in cui la Libia, in cambio di una più stretta collaborazione coll’Italia e l’Europa, si impegna a fermare le partenze. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il governo libico si impegna ad arrestare e internare gli immigrati illegali in campi di prigionia – campi che un documento riservato del ministero degli Esteri tedeschi aveva definito “simili a campi di concentramento” (Fonte: LINK).

E quando i tedeschi parlano di “campi di concentramento” c’è da credergli.

Sulla questione delle ONG però il governo fino al maggio del 2017 ci va cauto. L’ondata giustizialista scatenata dalle dichiarazioni di Zuccaro è però sempre più difficile da contenere. E soprattutto c’è la destra anti-immigrazione che incombe. Lo dice senza mezzi termini il ministro degli Interni Marco Minniti all’inizio di maggio in un’intervista a Repubblica: “Il populismo – dice Minniti – vive e ingrassa della paura del Paese. E per tenere viva la paura è necessario coltivare un’ossessione”. (Fonte: LINK)

E l’ossessione di tutti al momento è una sola: la “smoking gun”, la pistola fumante. Cioè: in tutto questo carosello di supposizioni, scenari e ipotesi manca una cosa. Manca la prova concreta che le ONG sono in combutta coi trafficanti. Ma niente paura: se cerchi bene una pistola la trovi sempre. Anche se devi costruirtela da solo.

In più di sei mesi di imbarco gli agenti di IMI Security non hanno praticamente documentato niente di sospetto sulla “Vos Hestia”: niente segnali notturni agli scafisti, niente piani occulti, niente ammissioni di secondi fini. Ma c’è un’organizzazione tedesca con un’altra nave che sembra fare più al caso degli inquirenti. Si chiama “Jugend Rettet”, i giovani salvano, ed è stata fondata da un gruppo di studenti molto entusiasti e politicamente attivi che hanno raccolto fondi tra amici e familiari per comprare un vecchio peschereccio. L’entusiasmo, si sa, è come una malattia – contagioso, ma a volte pure fatale.

La nave di “Jugend Rettet”, la “Iuventa”, è particolarmente attiva e opera molto vicino al limite delle acque libiche – abbastanza da attrarre l’attenzione degli infiltrati della IMI Security. E nel giugno del 2017 i ragazzi di “Jugend Rettet” forniscono finalmente la pistola fumante che tutti stavano cercando. Durante il soccorso di diverse imbarcazioni, una barca dell’organizzazione prende a rimorchio un gommone degli scafisti – i portavoce dell’ONG dicono in seguito: per rimuoverlo dall’area di operazioni. Lo portano verso la Libia e in pratica lo riconsegnano agli scafisti. È la prova che tutti aspettavano: le ONG aiutano i traffici.

Da bordo della “Vos Hestia” gli agenti fotografano tutto. C’è n’è abbastanza per tirare su un procedimento penale (LINK).

E così si arriva alla fine di giungo del 2017. Nella nostra spy-story potremmo chiamarlo il momento della resa dei conti.

Si comincia in Germania. Ricordate la “Cap Anamur”? Ricordate le telefonate al vetriolo tra Berlino e Roma? Ecco… Nonostante organizzazioni umanitarie tedesche siano da mesi sotto tiro della magistratura italiana, a Berlino non vola una mosca. Anzi. A dare il via alla crociata giudiziaria contro le ONG è proprio una procura tedesca: il 26 giugno la procura di Dresda attiva un procedimento contro l’organizzazione “Mission Lifeline”, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. (Fonte: LINK)

E’ un fulgido esempio di giustizia profetica che farebbe molto contento lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick – quello di “Minority Report”. Perché quando partono gli avvisi di garanzia la “Mission Lifeline” non ha nemmeno una nave.

E’ suonata la carica: Appena un giorno più tardi il ministro Minniti annuncia di voler chiudere i porti alle ONG (Fonte: LINK). Nelle settimane successive poi il ministro elabora un codice di comportamento (Fonte: LINK) che le ONG sono tenute a firmare se vogliono continuare a usare i nostri porti. Il codice prevede un rigoroso controllo da parte delle autorità italiane.

Solo tre su nove ONG firmano. I giovani entusiasti di “Jugend Rettet” non sono tra questi.

E’ il momento di fare scattare la trappola: All’inizio di agosto la procura di Trapani ordina il sequestro della “Iuventa”. Ci sono “gravi indizi di contatti con i trafficanti” si legge nella motivazione. Quali? Non si sa. Ma il Procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio fa però un distinguo importante che sembra quasi un richiamo all’ordine per il suo collega Zuccaro: “La mia personale convinzione è che lo facessero per motivi umanitari” – dice Cartosio. E aggiunge: “Un collegamento stabile tra la Ong e i trafficanti libici è pura fantascienza.” (Fonte: LINK)

Ma il segnale è stato dato: le ONG sono ora ufficialmente sotto accusa.

Nonostante gli attacchi giudiziari, nonostante la campagna mediatica, nonostante la pioggia di insulti online – nonostante persino il prevedibile calo dei contributi volontari dovuto a sei mesi di attacchi martellanti… le ONG continuano a lavorare. E continuano a salvare vite.

Ma una cosa è essere sotto tiro di qualche testa di cuoio da tastiera – un conto è essere sotto il tiro di milizie armate. Specie se i proiettili li paga chi in teoria dovrebbe difenderti.

Nel luglio 2017 l’Unione Europea ha stanziato – su pressione dell’Italia – 46 milioni di euro al governo di Tripoli (Fonte: LINK). Ma è solo un acconto: in totale ci sono sul tavolo quasi 300 milioni. Una cifra considerevole. (Fonte: LINK).

E a chi vanno? Vanno in prevalenza al rafforzamento della guardia costiera. Beh… Bene, no? La guardia costiera libica può salvare i migranti e fermare i traffici. Problema risolto.

Peccato che la sedicente guardia costiera sia formata quasi interamente da miliziani, guerriglieri e trafficanti. E questi non vanno per il sottile: ad agosto la nave dell’organizzazione spagnola Pro Activa Open Arms viene minacciata dall’equipaggio di una motovedetta. Parlando via radio i presunti militari dicono: andatevene, questo adesso è il nostro territorio. E non dicono per dire: a settembre militari che si identificano come funzionari della guardia costiera sparano e assaltano la nave di “Mission Lifeline”, a novembre un’imbarcazione della guardia costiera tenta di speronare la Sea Watch.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Delle nove organizzazioni presenti in mare all’inizio dell’estate sette ritirano le navi. Il pericolo per il personale è troppo elevato. “Save the Children” chiude le operazioni. Catambrone e la sua MOAS spostano le attività nel subcontinente asiatico, dove vanno a prestare aiuto ai profughi Rohingya in fuga dalla Birmania. Apparentemente l’ex dittatura militare è un interlocutore più civile dell’Unione Europea. Höppner e la sua Sea Watch restano.

Restano. Ma non hanno più molto da fare. Perché di colpo il mare si è come svuotato. I telefoni di emergenza tacciono. Nel Canale di Sicilia ci sono solo pochi, isolati barconi.

Che cosa è successo? Magari senza l’aiuto delle ONG gli scafisti hanno chiuso davvero bottega? O magari è venuto meno il pull factor che spingeva così tante persone a rischiare la vita in mare. Alla fine allora Ricci, Zuccaro e Salvini avevano ragione, insomma.

Non proprio.

E’ successo che quelle stesse milizie che facevano soldi mettendo la gente in mare per farla venire in Italia hanno scoperto che si possono fare ancora più soldi tenendola lì quella gente. Coi soldi dell’Italia e dell’Unione Europea il governo di Tripoli paga i miliziani per bloccare il traffico che loro stessi gestivano. Da scafisti sono diventati carcerieri – come conferma un rapporto delle Nazioni Unite (Fonte: LINK).

Chi cerca di scappare – magari a bordo di imbarcazioni di fortuna – adesso viene catturato, picchiato duramente e poi sbattuto in uno dei campi di prigionia. Ci sono video che lo dimostrano. (Fonte: LINK)

La nostra spy story potrebbe finire qui, con un’immagine della spiaggia di Sabratha, a Est di Tripoli, dove ogni mattina si radunavano centinaia di migranti per salire sui gommoni. Adesso la spiaggia è deserta. C’è solo il rumore del mare. E le grida dei gabbiani. (Fonte: LINK)

Beh, almeno i migranti non rischiano più la vita in mare.

Non proprio.

Se ci si sposta di qualche chilometro dalla spiaggia, infatti, ci si imbatte in una grossa struttura recintata con filo spinato. Dentro ci sono centinaia di persone – uomini, donne e bambini. Vengono dal Sudan, dall’Eritrea, dalla Somalia. Sono magri, coperti di lividi ed escoriazioni. Le donne si tengono in disparte.

Ogni tanto arrivano dei libici armati che caricano gli uomini su un camion colpendoli con bastoni elettrici – come bestiame. Altre volte vengono a prendere una o più donne per portarle nelle baracche delle guardie.

Nel novembre 2017 il Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’ad Al Hussein, dopo aver visitato la Libia, parla di un “oltraggio all’umanità” (Fonte: LINK): i detenuti sono malati e deperiti. Non ci sono gabinetti. Torture e stupri sono all’ordine del giorno.

E da allora la situazione è solo peggiorata: la cosiddetta guardia costiera libica intercetta al momento circa l’85 per cento di coloro che cercano di scappare dal paese. I campi di detenzione sono stracolmi: non si sa quanti detenuti siano morti di stenti e malattie (Fonte: LINK).

E tutto questo, val la pena ripeterlo, è pagato con soldi nostri.

Ma almeno i loschi traffici delle ONG sono venuti alla luce.

Non proprio.

Cinque inchieste giudiziarie con più di 40 di avvisi di garanzia si sono susseguite dopo il sequestro della “Iuventa”: è stata perquisita la “Vos Hestia”, sequestrata la “Golfo Azzurro” di Pro Activa Open Arms, si è indagato su presunte attività illecite di Sea Watch e – pochi mesi fa – il sempre solerte Zuccaro ha avviato un’indagine contro l’organizzazione SOS Mediterranée per smaltimento illecito di rifiuti. Le inchieste hanno coinvolto quattro procure e decine di collaboratori.

Il risultato? Nessun processo, nessuna condanna. Niente. Un’inchiesta fantasma.

Ma almeno, come diceva Minniti, la linea dura è servita a fermare l’avanzata dei populisti.

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E ora… Ora che il nuovo governo giallo-verde ha di fatto chiuso i porti a chi salva persone in mare, ora che le poche navi umanitarie rimaste vagano come vascelli fantasma nel Mediterraneo – bussando a ogni porta come la bambina di Hiroshima cantata da Hikmet – ora che le partenze si sono ridotte drasticamente ma di mille persone che partono dieci in più ne crepano rispetto agli anni scorsi, ora che in Libia i lager traboccano di persone e il mercato degli schiavi va alla grande… Ora ci si immaginerebbe che almeno una persona – chessò un magistrato, un politico, un giornalista – dicesse: mi dispiace. È stato tutto un errore.

Uno, per la verità, c’è. È Pietro Gallo, l’ex poliziotto diventato esperto di sicurezza diventato informatore: “Quando sento che 170 persone sono morte, perché non c’era nessuno a soccorrerle – dice al Fatto Quotidiano – io oggi mi sento responsabile. In 8 mesi di navigazione ho contribuito a salvare 14mila persone. So di cosa stiamo parlando. Il mio obiettivo non era questo”.

È qualcosa.

E anche se la pensate diversamente, se anche pensate che le ONG abbiano agito fuori dalla legge, anche se credete che non possiamo davvero aprire le braccia a tutti quelli che arrivano per mare, anche se dite “Ma quali donne e bambini? Quali rifugiati? Sono tutti ragazzi che vengono qua per spacciare e rubare”… almeno sarete d’accordo con me che non possiamo guardare dall’altra parte quando ci sono 15.000 cadaveri di bambini in fondo al mare in cui ci tuffiamo d’estate. È una questione di civiltà.