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La bestia, i testi della quinta puntata

Allora, immaginate una sala conferenze di lusso: pareti rivestite di mogano con eleganti foto in bianco e nero in cornici d’argento. Un ampio tavolo – anch’esso di legno pregiato circondato da 10 poltrone in pelle. Su tre di queste poltrone siedono tre uomini. Uno di loro è reso irriconoscibile da un effetto elettronico. Dei due che gli siedono di fronte uno è più compassato – e indossa giacca e cravatta. L’altro invece ha la cravatta allentata e la camicia aperta e parla con aria di chi nella vita ha già visto tutto. E formula in poche parole un compendio di scienze politiche:

“Non serve a niente combattere una campagna elettorale sui fatti. Perché tutto si basa sulle emozioni. I due principali motori dell’essere umano quando si tratta di assimilare informazioni efficacemente sono speranze e paure. E molte di queste sono inspiegabili e spesso inconsce. Non sapevi di avere una certa paura finché non hai visto qualcosa che ha suscitato in te questa reazione. Il nostro lavoro è calare il secchio più a fondo dentro al pozzo. E capire quali sono le paure e ansie più profonde e radicate”

A parlare è Mark Turnbull, managing director di un’azienda britannica per l’analisi dei dati chiamata Cambridge Analytica.

Giornalisti della rete televisiva BBC hanno filmato Turnbull e il CEO dell’azienda Alexander Nix durante finti incontri con un potenziale cliente. Il servizio richiesto: la manipolazione di un’elezione.

E Turnbull spiega come funziona il servizio. Cambridge Analytica può ottenere informazioni personali su migliaia di potenziali elettori – e costruire una campagna che faccia leva sulle loro ansie più intime, sulle paure più profonde – paure che forse non sanno neanche di avere.

E come fanno? Grazie alle informazioni che mette a loro disposizione un’altra azienda specializzata nella gestione e analisi di dati. Ne avrete sentito parlare. Forse state usando i suoi servizi in questo momento. Si chiama Facebook.

Ma c’è di più: Turnbull e Nix promettono al cliente di poter eliminare avversari politici, magari coinvolgendoli in qualche lurido scandalo sessuale. Dicono di averlo già fatto decine di volte.

Dopo un po’ i discorsi dei due vertici di Cambridge Analytica non suonano più nemmeno inquietanti – ma più come delle scontate battute di un thriller politico.

Alla fine allo spettatore resta il dubbio: quanto c’è di vero nella cinica, amorale visione del mondo e della società che ispira l’attività di Cambridge Analytica?

Beh… A pensarci bene… Che importa. Verità e bugie – come direbbe qualcuno – sono solo fatti alternativi.

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Ok. Facciamo un passo indietro. Ci sono due uomini di governo – in realtà sarebbero tre ma il terzo è poco più di un segnaposto. I due sono impegnati in una strenua lotta per l’egemonia – una lotta che divide la popolazione e rischia di spaccare lo Stato. Uno è un po’ più anziano e molto rispettato, soprattutto in ambienti militari. L’altro è giovane ma è un abile stratega e può contare su alcune amicizie importanti.

A un certo punto succede che il più anziano dei due sia in missione. Il giovane coglie la palla al balzo e si presenta in Senato con uno scoop sensazionale: un documento che dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che il suo rivale è in combutta con una minacciosa potenza orientale per assumere il potere.

Il documento fa leva sui pregiudizi in voga contro gli stranieri – soprattutto orientali – considerati una minaccia per i valori e la stabilità dello Stato. Per corroborare i sospetti, il giovane politico mette in giro vari brevi messaggi – 140 caratteri o meno – che dipingono il suo avversario come immorale e corrotto. Anche per questo la notizia si diffonde in maniera virale. E scatena l’indignazione del mondo politico e la furia della popolazione, che chiede immediate conseguenze.

Il diretto interessato viene a conoscenza dell scandalo con molto ritardo, ma è troppo tardi. Il Senato lo dichiara decaduto dalla carica. A lui non resta che fuggire.

Si arriva allo scontro e il giovane stratega ne esce vittorioso. Al veterano non resta che il suicidio.

Ora sappiamo che quel documento che ha scatenato la caccia all’uomo era probabilmente un falso, una fake news – e pure fatta abbastanza male. Ma era un falso ben congegnato, capace di provocare reazioni forti: ira e indignazione.

E di cambiare la Storia del Mondo Occidentale. Perché quel documento risale più di 2000 anni fa e riguardava un certo Marco Antonio. L’autore? Cesare Ottaviano, che poi, col nome Augusto, sarebbe diventato il primo imperatore di Roma. (https://theconversation.com/the-fake-news-that-sealed-the-fate-of-antony-and-cleopatra-71287)

Le fake news sono vecchie quanto la politica. Sin dall’antichità raccontare fregnacce è un ottimo modo per liberarsi di un avversario o di un intero gruppo etnico o religioso. Ricordo che a scuola mi arrabbiai moltissimo per la storia di Alcibiade – giovane e brillante generale ateniese, amico di Socrate, che ad un certo punto viene accusato d’aver mutilato delle statue del dio Ermes. Tutto falso. Ma Alcibiade viene condannato a morte ed è costretto a fuggire.  

E che dire del povero Nerone, passato alla storia come l’imperatore folle che suona la cetra mentre Roma brucia – una storia che, coincidentalmente, è stata scritta proprio da quelli che lo hanno costretto al suicidio.

Per non parlare di tutte le campagne denigratorie ai danni di popolazioni, gruppi o minoranze religiose: i cristiani cannibali ai tempi dell’Impero Romano, i saraceni sodomiti, gli zingari rapitori di bambini. E, naturalmente, la caterva di fregnacce che ha circondato nei millenni quegli ammazza-bambini, propagatori di pestilenze e occulti complottari degli Ebrei.

Nei secoli i sistemi si raffinano. Le strategie diventano più complesse. E soprattutto ci sono più mezzi per raccontare e far circolare storie: libri, giornali, poi radio, TV.

Già durante la Prima Guerra Mondiale inglesi e tedeschi facevano a gara a chi riusciva a piazzare più fake news nei giornali: gli inglesi dicendo che i tedeschi facevano il sapone colle persone, i tedeschi invocando complotti giudaico-bolscevichi. E questo ancora prima che Joseph Göbbels creasse il famigerato ministero della Propaganda.

Ma a quanto pare sono i russi ad aver promosso le fake news a una vera forma d’arte. E questo molto prima di internet, delle campagne virali e degli hacker.

All’inizio degli anni ‘20 del XX secolo il GUP, il servizio segreto che sarebbe poi diventato il KGB, inaugura l’ufficio per la disinformazione. Questo ufficio produce una svolta decisiva nella storia dei servizi di intelligence: Fino a questo punto infatti le calunnie, i falsi, le fake news servivano sostanzialmente a due scopi – farsi belli o gettare fango addosso al nemico.

L’ufficio per la disinformazione fa un’altra cosa: confeziona e mette in giro informazioni false – non necessariamente positive o negative – ma plausibili. In questo modo crea una cortina di fumo in cui diventa difficile distinguere tra vero e falso. Una delle prime operazioni dell’ufficio è piazzare in vari giornali stranieri la notizia che vi sia un movimento di resistenza contro i bolscevichi – e che questo movimento sia prossimo alla vittoria. Alcuni dissidenti in esilio all’estero leggono la notizia e tornano in Russia per sostenere la resistenza. E così vengono arrestati e ammazzati. LINK

Ma è durante la Guerra Fredda che la disinformazione diventa un asset strategico fondamentale.

Gli esempi si sprecano. Avete presente per dire la storia che il virus dell’AIDS era stato creato in un laboratorio militare? L’ha creata il KGB nel 1983. E l’ha pure ammesso – qualche anno più tardi. Ma la bufala era così ben fatta che ogni tanto continua a fare capolino in qualche sito complottaro. LINK

Ma non sono solo i russi eh.

Fin dagli anni ‘60 la CIA, il servizio segreto statunitense, mantiene contatti con centinaia di giornalisti sparsi in tutto il mondo che hanno il compito di diffondere notizie e informazioni preparate dall’agenzia – come ha confermato una commissione governativa nel 1977.

A volte si limitano alle classiche campagne denigratorie – come in Iran negli anni ‘50 o nel Cile di Allende. A volte fanno cose più creative – come quando, per screditare il nuovo Presidente democraticamente eletto in Indonesia Sukarno, l’agenzia decise di realizzare un film porno con un attore che somigliava al Presidente. Il progetto fu annullato – perché, contrariamemente a quanto speravano gli agenti a Stelle e Strisce, i “rumours” intorno al film invece di generare scandalo avevano infatti fatto crescere la popolarità del presidente.  LINK

Insomma: la storia è piena di bugie – bugie colle gambe lunghe, lunghissime.

Ma forse il punto di svolta più importante per capire come siamo arrivati a oggi – a Cambridge Analytica, agli hacker e alle campagne di disinformazione online è l’agosto del 2008.

Mentre le redazioni di giornali e TV sonnecchiavano nella calura agostana, una notizia piombò come una bomba tra statistiche sulle temperature e foto di vip in vacanza: la Russia ha invaso la Georgia.

Come, perché, per colpa di chi è tutt’ora oggetto di dibattito. Un po’ come nel caso della guerra in Ucraina è difficile formarsi un’opinione: il governo georgiano dice che le milizie separatiste in Ossezia e Abkhazia avevano compiuto una serie di raid provocatori – e manda l’esercito. I separatisti a loro volta accusano l’esercito georgiano di aver effettuato dei veri e propri pogrom. E chiamano in soccorso Mosca.

Com’è, come non è, la guerra dura appena pochi giorni. Ma i suoi effetti sono destinati ad avere ripercussioni molto più durature.

Perché la guerra russo-georgiana è la prima guerra combattuta su un nuovo campo di battaglia: internet. Da un lato è la prima volta che hacker di entrambe le parti si sfidano a mettere fuori uso i siti della parte avversa.

Dall’altro il conflitto diventa un braccio di ferro mediatico: entrambe le parti iniziano una campagna internazionale per far vedere al mondo quanto cattivo è il nemico. Mentre la propaganda filo-russa funziona di fatto solo in Russia, i georgiani riescono a tirare dalla loro parte quasi tutti i media internazionali.

I russi riconoscono il loro problema di immagine. E cominciano a pensare a una soluzione.

“La guerra dei cinque giorni ci ha dimostrato che la rete è un fronte come i media tradizionali, ed è un fronte che reagisce molto più rapidamente e su una scala molto più ampia. L’agosto 2008 è l’inizio dell’era dei conflitti virtuali e il momento in cui ci siamo resi conto che bisogna combattere anche sul fronte dell’informazione”. Fonte: LINK

Queste parole sono state pronunciate da quello che – secondo alcuni – era all’epoca il secondo uomo più potente in Russia dopo Vladimir Putin: il vice-capo di gabinetto Vladislav Surkov.

Surkov è una delle figure più affascinanti della Storia russa contemporanea. Comincia la sua carriera come agente pubblicitario, poi passa alla televisione per approdare poi in politica. In tutte queste varie tappe c’è una costante: Surkov, che da ragazzo ha studiato regia teatrale, vede i pezzi della macchina pubblica – politici, imprenditori, media – come attori di una grande pièce.

Tutto sta a dare loro una buona sceneggiatura.

E la pièce ha anche un nome. Surkov la chiama “Democrazia sovrana”. In pratica significa che lo Stato controlla tutti gli aspetti della vita pubblica allo scopo di raggiungere – per dirla coll’autore – benessere materiale, libertà e giustizia per tutti, ma senza impelagarsi in inutili schermaglie politiche.

Il pragmatismo come unica ideologia.

Ora, qualcuno si chiederà… capisco la sovranità, ma dov’è la democrazia? Dove è che il popolo decide se fare A o fare anzi B? Beh… la democrazia per Surkov è la pièce – è il teatro. Cioè: la popolazione deve avere l’impressione di far parte di un grande teatro democratico in cui è giusto e sensato accapigliarsi. Poi alla fine decide lo Stato sovrano. Ci siamo?

Durante i suoi anni come braccio destro di Putin, Surkov ha finanziato decine – forse centinaia – di partiti, ONG, gruppi giovanili – tutti di orientamento diversissimo, di destra, di sinistra, nazionalisti, europeisti, alcuni pro Putin, altri ferocemente anti-Putin.

Perché, come ogni teatrante ben sa, un buon dramma ha bisogno di buoni conflitti.

Ma il vero colpo di genio di Surkov non è tanto aver creato questo sistema, quanto averlo reso pubblico.

C’è una foto scattata alcuni anni fa da un blogger liberale russo nello studio di Surkov. Nella foto si vedono due vecchi telefoni a tastiera che sembrano usciti da un film di spionaggio degli anni ‘70. Sui telefoni si leggono chiaramente i nomi di tutti i leader politici dell’opposizione. E’ la prova che Surkov ha tutti in tasca. Ma poi – colpo di scena – si scopre che il blogger era a libro paga di Surkov. E le foto le ha di fatto “leakate” lui stesso. E da chi lo sappiamo? Dallo stesso Surkov.

E’ un capolavoro di quella che i critici della letteratura chiamano “mise en abyme”: un abisso consecutivo di finzioni in cui uno finisce per perdersi, come in un labirinto di specchi.

E giusto perché non si dica che ce l’ho coi russi: la guerra dell’informazione – o della disinformazione – occupa in questi anni anche i servizi statunitensi. In un manuale della Scuola Ufficiali dell’Esercito americano del 2006 si legge: “La guerra di informazioni intende influenzare il comportamento degli obiettivi – inteso come noi, le persone – siano essi amministratori o pubblico generale. […] In questo non si differenzia da altre forme di esercizio del potere, siano esse diplomatiche, militari o economiche”.

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Anzi, se vogliamo la Russia di Putin cerca solo di recuperare terreno.

Uno degli strumenti di propaganda più potenti in mano ai servizi statunitensi negli anni della Guerra Fredda erano stazioni radio internazionali come “Radio Free Europe”, “Radio Free Asia” e “Voice of America” che trasmettevano in territorio sovietico – e, aiutati dalle suadenti note di Elvis o dei Beatles, facevano breccia nella rigorosa educazione socialista. E contribuivano così al crollo del blocco comunista.

I tempi cambiano. E il rock è morto. Ma l’idea è viva: i contenuti giusti piazzati nelle orecchie giuste possono far crollare gli imperi.

Una delle prime iniziative che il Cremlino assume dopo la guerra colla Georgia è potenziare un piccolo network televisivo pubblico che, fino a quel momento, diffondeva notizie sulla Russia in lingua inglese – Russia Today. Dopo un processo di rebranding il network – adesso chiamato semplicemente RT – cambia strategia: spuntano redazioni in francese, tedesco, spagnolo e arabo.

E anche i contenuti cambiano. RT non parla più solo di Russia, ma di Europa e Stati Uniti. E lo fa soprattutto mettendo in luce situazioni critiche e problemi sociali – anche a costo di inventarseli: in pochi anni RT diventa il canale di comunicazione preferito da teorici del complotto americani come il giornalista radiofonico Alex Jones. Lo scopo è chiaro – come ha scritto una ex-collaboratrice del network: RT vuole dipingere l’inevitabile crollo della società liberale e capitalista occidentale.  LINK

Dietro il successo di RT c’è una giornalista di origini armene, Margarita Simonyan. Quando era alle superiori Simonyan ha trascorso un anno negli Stati Uniti. Ed è rimasta affascinata dal tono e dal ritmo dell’informazione di reti come CNN e CBS. Da lì viene l’idea di una rete d’informazione vivace e dinamica. E anche se all’inizio mancava di competenza e rigore giornalistico, RT riesce in breve a entrare tra i grandi player internazionali – e ad attrarre vere celebrità come il veterano della CNN Larry King e il fondatore di Wikileaks Julian Assange.

Ma non c’è da sbagliarsi: la missione di RT non è fare ascolti. Lo spiega bene la stessa Simonyan in un’intervista ad un quotidiano russo: “Ora non stiamo combattendo. Ma nel 2008 stavamo combattendo. Il Ministero della Difesa combatteva in Georgia ma noi combattevamo la guerra dell’informazione – e combattevamo contro tutto il mondo occidentale. Dobbiamo essere pronti per la guerra”. LINK

RT combatte una guerra. E presto riceve rinforzi. Dalla fusione dell’agenzia RIA Novosti con la vecchia Radio Mosca nasce nel 2012 un altro canale che Simonyan battezza Sputnik – perché il famoso satellite, dice, è una delle poche cose positive della Russia che si conoscono anche in Occidente. E Sputnik ha contenuti video e online in 30 lingue. Tra cui l’italiano.

Ora, nessuno sa di preciso quante persone seguono RT e Sputnik in TV. Ma in realtà importa poco, perché i loro video trovano presto un’altra piattaforma: Internet e i social network.

Qui si parla di miliardi di click. E come funziona la strategia del network? Semplice: ci sono articoli “esca” – cose leggere e curiose che vanno dai pezzi di gossip a quelli di costume, capaci di attrarre e solleticare l’interesse del lettore – per poi deviare l’attenzione verso altri articoli.

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Come ad esempio l’articolo che nel gennaio 2016 parla del sequestro e stupro di una ragazzina di 13 anni di origine russa da parte di tre uomini di aspetto arabo a Berlino.

La storia – dice subito la polizia berlinese – è inventat. Ma RT la rilancia online lo stesso e in poche ore la notizia è diventata virale.

E questo è solo il primo livello.

Mentre intorno alla casa della ragazzina si forma un capannello di russo-tedeschi, un portavoce della polizia cerca di tranquillizzare gli animi e ribadisce che la storia è falsa. A questo punto RT usa il video del portavoce per fare un nuovo lancio: la polizia tedesca copre lo stupro di una bambina. E perché. Per difendere la politica migratoria di Angela Merkel. È una bomba. Centinaia di persone si riversano in strada e anche il ministro degli Esteri russo Lavrov in visita a Berlino dice che – se confermata – la notizia sarebbe di una gravità estrema.

Gli specialisti della guerra dell’informazione stanno pero solo scaldando i muscoli.

Mentre divampa lo scandalo del finto stupro a Berlino un esercito di hacker è al lavoro per raccogliere centinaia di E-Mail – l’obiettivo è la candidata democratica alle presidenziali americane Hillary Clinton.

Sappiamo com’è andata: le e-mail private di Clinton finiscono in mano a Wikileaks che – anche attraverso RT – le diffonde, insieme alla notizia che la candidata democratica avrebbe compiuto flagranti abusi d’ufficio. Nessuna delle accuse si concretizza ma tanto basta…

AUDIO Trump
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Questo è l’attuale presidente americano Donald Trump che, durante la campagna elettorale del 2016, dice chiaramente: “Se la Russia o la Cina hanno quelle e-mail, sarò onesto. Io le voglio vedere”.

E’ singolare che Trump abbia festeggiato l’esito dell’inchiesta della commissione Mueller perché questa non ha trovato nessuna prova di una collusione diretta con agenti russi.

Nessuno – nemmeno nel team di Trump – ha mai infatti messo in discussione il fatto che ci sia stata una massiccia ingerenza di Mosca nelle elezioni. E che il Cremlino abbia di fatto favorito la vittoria del suo candidato preferito. E nessuno sembra preoccuparsi del fatto che questo – come ha scritto il Direttore dell’Intelligence americana all’inizio del 2017 – possa diventare un modello per future elezioni in altri paesi alleati.

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Ora… Posso quasi sentire alcune persone di mia conoscenza dire: eh bravo! Facile prendersela coi russi cattivi eh! Perché non parliamo dei droni americani in Pakistan? Perché non parliamo delle armi tedesche in Arabia Saudita? O degli interessi francesi in Libia? Ah, i media non ne parlano… Che strano…

Come confermerà qualunque giornalista degno di questo nome, l’idea che i media possano essere obiettivi e imparziali è pura fantasia. Non dico che in Europa o negli Stati Uniti non vi siano tentativi di manipolare l’opinione pubblica. Dico solo che – fedeli al canovaccio del caro Surkov – la Russia fa di tutto per far sapere al mondo quanto potente è la sua macchina di disinformazione.

Molti avranno sicuramente sentito parlare dell’Internet Research Agency o “Fabbrica dei Troll” di Olgino, vicino a San Pietroburgo. Da una centrale operativa grande come un centro commerciale, l’agenzia gestisce quasi 4.000 account di twitter e un numero imprecisato di profili facebook, postando messaggi in russo, francese, inglese, tedesco. Quando la CIA ha diffuso i dati sull’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016, Twitter e Facebook hanno trovato rispettivamente più di 9 milioni di tweet e 31 milioni di post su Facebook prodotti dalla “Fabbrica”.

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https://www.io-archive.org/#/

Ma nonostante questo, nonostante i dossier investigativi e le interviste coi troll uscite su vari quotidiani la “Fabbrica” è sempre lì – e continua a pompare messaggi in rete come una vera fabbrica pompa vapori tossici nell’atmosfera. Anzi, ho l’impressione che più se ne parla, più questo altoforno alimentato da razzismo, populismo e autoritarismo avvampa e ruggisce.

Non si sa quale influenza abbiano i troll di Olgino sulla politica internazionale. Secondo alcuni sono una banda di disperati con un uso rudimentale del traduttore di Google. Secondo i servizi americani sono una seria minaccia per la democrazia.

La verità sta probabilmente nel mezzo. Ma l’aspetto più inquietante dei troll di Olgino non sono le loro macchinazioni – no, la cosa spaventosa è quanto è facile creare una fabbrica dei troll – basta un portatile e un accesso alla rete.

Per sapere quanto facile basta andare un po’ più a Sud, parecchio più a Sud, fino a Veles, in Macedonia.

Veles è una cittadina di 50.000 anime collocata tra colline verdeggianti. Intorno alla città ci sono i resti della zona industriale abbandonata dopo il crollo della Yugoslavia. Più della metà delle popolazione è disoccupata.

A un certo punto però in città cominciano ad apparire grosse macchine tedesche. E chi le guida? Qualche investitore straniero? Un capomafia? No, le guidano ragazzetti poco più che maggiorenni che hanno appena scoperto una miniera d’oro. Una miniera chiamata fake news.

E’ successo che alcuni appassionati di computer e videogiochi in paese hanno lanciato un sito di consigli per la salute in inglese – consigli assolutamente inventati, tipo impacchi di avocado per curare le verruche. Il sito va alla grande. Da lì alla politica internazionale il passo è breve. Siamo nel 2016 e le elezioni presidenziali in America tengono banco sui social.

I ragazzi di Veles lanciano diversi siti – all’apparenza giornalistici – con nomi tipo Politicalhall.com e USApolitics.com e iniziano a fabbricare notizie che poi postano su falsi profili social. In realtà le copiano per lo più da blog americani. Inizialmente provano a fare una cosa bipartisan con articoli pro Trump e pro Clinton. Ma presto si accorgono che le notizie pro Trump tirano di più.

In poco tempo ci sono più di 100 siti pro Trump registrati a Veles. Le notizie vengono condivise migliaia di volte. E colla pubblicità di Google i ragazzi tirano su decine di migliaia di euro.
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Ma come è possibile che un gruppo di teenager che scrivono cazzate in cattivo inglese abbiano più seguito – diciamo – di questo documentatissimo e forbitissimo podcast?

Beh. La risposta – sembra banale – è proprio che scrivono cazzate.

Come ha dimostrato uno studio dell’MIT di Boston le fake news si diffondono più rapidamente e raggiungono più persone delle notizie di provata veridicità: mentre una notizia vera può aspirare al massimo a 1.000 visualizzazioni, una fake news raggiunge in media tra 1.000 e 100.000 persone.

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E questo vale soprattutto per le situazioni ad elevata criticità come ad esempio un’elezione: un’analisi del siti d’informazione Buzzfeed ha messo in luce che nei tre mesi precedenti all’elezione americana del 2016 le fake news più cliccate di Facebook hanno ampiamente surclassato tutte le fonti di informazioni qualificate come il Washington Post, New York Times e NBC.

E la stessa cosa è capitata poco prima delle elezioni europee del maggio 2019: nelle settimane precedenti alle elezioni sono apparsi di colpo migliaia di profili Twitter che producevano a getto continuo tweet farlocchi in varie lingue. LINK

Questo perché – come diceva Turnbull, il supercattivo di Cambridge Anyltica – una notizia inventata può fare leva sulle emozioni degli utenti. E quindi provocare un maggiore coinvolgimento.

Non è cronaca. E’ letteratura, poesia. Beh. Non dico che sia buona letteratura.

“Immigrati senza diritti ricevono una pensione di 550 euro al mese e non hanno mai versato un soldo in Italia! Mentre i pensionati italiani che hanno lavorato per una vita se la sognano una pensione del genere!”

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“Immigrati del centro profughi di San Bernardo sul Brenta in rivolta perché la struttura è vicino a un canile, animale da loro considerato impuro! Grazie Boldrini!”

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“16 donne tedesche che hanno accettato di comparire sui giornali in questi giorni in Germania, sono state aggredite e stuprate da immigrati! è questo quello che il pd ha creato in tutta Europa!”

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Questi sono alcuni esempi delle migliaia di fake news raccolte dal sito di debunking “Bufale un tanto al chilo”. Sembrerà assurdo ma molte di queste sono state riprese persino dai media ufficiali.

A quanto pare l’Italia è una terra di conquista per i professionisti delle bufale. Alcune settimane fa l’ONG Avaaz ha pubblicato una lista di più di 100 pagine Facebook italiane impegnate nella diffusione sistematica di bufale – in totale le pagine raggiungono quasi 20 milioni di persone. Pagine come “Vogliamo il movimento 5 stelle al governo”, “Lega Salvini Sulmona”, “Lega Salvini Premier Santa Teresa di riva”. Tutte con centinaia di migliaia di interazioni.

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E una porzione consistente delle bufale diffuse dal network scoperto da Avaaz riguarda – rullo di tamburi – l’immigrazione.

Il motivo – l’abbiamo detto e ripetuto – è che ci sono pochi altri temi che polarizzano e provocano reazioni emotive quanto gli immigrati. Specialmente quando questi vengono presentati come stupratori, assassini o parassiti – come appunto facevano le succitate pagine.

Stando a un recente studio dell’istituto di ricerca Alto Analytics, il tema immigrazione sui social italiani è letteralmente dominato da chi diffonde il tipo di notizie che ho citato prima: quasi il 70 per cento dei post social sul tema hanno carattere fortemente negativo. Temi centrali sono la presunta invasione migratoria, criminalità e terrorismo.

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Anche durante la campagna per le elezioni europee 4 notizie su 5 riguardanti l’immigrazione sui social avevano contenuto negativo.

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E da dove vengono queste notizie? Se si guarda tra le fonti si scopre che rispettivamente al 40esimo e 58esimo posto delle fonti più citate in Italia sul tema si trovano due network che di norma non dovrebbero entrare nella top 100 dei principali media italiani. Avete indovinato: Sputnik e RT.

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E vabbeh… Vedi che torniamo sempre lì, ai russi cattivi? Non ti sembra – dice la mia sempre solerte voce interiore – di fare esattamente quello di cui accusi gli altri? Non stai descrivendo un grande complotto globale gestito da (più o meno) occulti Maestri Venerabili?

No. E ti dico subito perché, cara voce interiore.

Perché nel mio intimo nutro una profonda, radicata convinzione: i complotti, le cabale, le trame occulte sono storie che ci raccontiamo per tenere viva l’illusione che ci sia qualcuno che ha un piano, una visione – qualcuno che conosce il funzionamento intimo delle cose del Mondo.

La realtà è però più prosaica – e molto, molto più sinistra.

Internet è un serbatoio di informazioni di proporzioni colossali. Se dovessi stampare in un libro tutti i contenuti presenti in rete il libro sarebbe alto come dalla Terra alla Luna. Allo stesso tempo ci sono nel Mondo più di 4 miliardi di persone che usano internet.

Ora: come faccio ad assicurarmi che in questa enorme massa di pagine e di persone il giusto utente trovi la pagina giusta?

La risposta è: con un algoritmo. Sono algoritmi a filtrare i risultati che ottengo quando cerco qualcosa su Google. Sono algoritmi che decidono quali storie di Facebook farmi vedere e quali no. E sono algoritmi che decidono la priorità con cui leggo i messaggi di Twitter.

E su cosa si basano queste decisioni? In soldoni si basano su due fattori: popolarità e preferenze personali.

Popolarità vuol dire che se un contenuto viene visionato e condiviso da tante persone è più probabile che mi capiti davanti. Sembra logico no? Se una cosa interessa a tanti è probabile che interessi anche a me.

Ma c’è un’altra ragione: pubblicità. Da che mondo è mondo la pubblicità è tanto più efficace quanta più gente la vede, no? E anche gestori di inserzioni come Google Adsense si basano su questo principio: Quindi, più interazioni genera un contenuto più è efficace il messaggio pubblicitario ad esso associato. E più soldi entrano in cassa. Semplice no?

E quali sono i contenuti che generano più interazioni? Beh… ce lo dicono i ragazzi di Veles: messaggi ad alto impatto emotivo – non importa se veri o no.

E poi ci sono le mie preferenze personali. Ogni click, ogni parola che digito in un motore di ricerca, ogni acquisto online, ogni foto che carico sui social contribuisce alla creazione di un profilo. Se, per dire, ho cliccato tre volte su articoli di ricette l’algoritmo mi classifica come amante della cucina – e mi suggerirà altri contenuti analoghi. Allo stesso modo, se ho cliccato due volte su qualche bufala anti-immigrati l’algoritmo mi proporrà altre storie simili.

E che ci fanno Google e Facebook con questi profili? Li vendono. A inserzionisti – o ad aziende come Cambridge Analytica, che sono così in grado di elaborare campagne sempre più personalizzate, sempre più efficaci.

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Micro-targeting lo chiamano. Micro-obiettivi. Ognuno di noi è un micro-obiettivo. Così, per esempio, la mia passione per la cucina mi rende un obiettivo ideale per la pubblicità del nuovo tritatutto. E il mio interesse per gli immigrati… beh… com’ è che diceva Turnbull?

“Non sapevi di avere una certa paura finché non hai visto qualcosa che ha suscitato in te questa reazione”.

Una volta che inizi a ricevere un certo tipo di contenuti – e magari ci clicchi sopra – è difficilissimo che l’algoritmo ti proponga contenuti alternativi. Dopo il tritatutto viene un set di coltelli, dopo il set di coltelli viene il pastamatic. E così dopo l’articolo sulla pensione agli immigrati viene quello sul terrorismo islamico e dopo ancora quello sugli stupri e così via.

Piano piano l’algoritmo costruisce un muro intorno all’utente – una stanza in cui lui può di fatto solo sentire le voci di chi ha i suoi stessi interessi o la pensa come lui – una echo-chamber, la chiamano i teorici della comunicazione, una camera dell’eco.

E in questa camera più fervono le emozioni (la paura, la rabbia), più forte diventa il clamore. E più forte diventa il clamore più le emozioni vengono amplificate.  

E cascarci dentro a una di queste stanze è un attimo.

Fate questo esperimento. Andate su Youtube. Cercate “Alieni”. Cliccate sul primo video. Guardate nei video correlati.

Ecco… A me ci sono voluti esattamente due click per trovare un video che nega l’Olocausto.

La ragione? Video controversi, politicamente scorretti e provocatori attraggono più click. Quindi hanno un ranking più alto. E quindi è più facile che li veda. E una volta che ho cliccato su quel video beh… l’algoritmo comincia a costruire il muro.

E prima che diciate “Sì vabbeh, ma mica sono tutti scemi che se vedono un video diventano nazisti”… In realtà ho solo citato il caso – reale – di Doug McGuire, un americano che per anni ha perseguitato insieme a migliaia di altri fanatici i familiari delle vittime del massacro di Sandy Hook. E tutto – dice Doug, che ora lavora per un progetto di sensibilizzazione contro le fake news – è cominciato con un click su un video che parlava di alieni.

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E’ vero che Google e Facebook stanno affrontando il problema – filtrando i contenuti e combattendo attivamente la diffusione di notizie false. Ma finora i risultati sono stati minimi.

E’ anche vero che il sistema non funziona con tutti. Se, per dire, ho già una coscienza politica sviluppata è difficile che un video o un post su Facebook mi facciano cambiare idea. Ma vedete… Ci sono molte persone che la coscienza politica se la stanno formando adesso in questo momento – e se la formano soprattutto in rete.

Circa la metà delle ragazze e dei ragazzi italiani sotto i vent’anni passa più di sette ore al giorno in rete. Dalla rete ottengono tutte le principali informazioni sull’attualità e sulla politica.

E i risultati si vedono: quasi il 70 per cento di loro ha un’opinione negativa della politica. Meno della metà di loro è andata a votare alle ultime europee. E quando lo ha fatto, quasi la metà ha scelto formazioni radicali come la “Lega” e “Fratelli d’Italia”.

Capite il punto? Non è che c’è un complotto internazionale. Non è nemmeno che ci sono perfidi spin-doctor che seducono le menti. No. Abbiamo costruito una macchina che ci rende prigionieri ognuno del suo incubo personale – una specie di Matrix alla rovescia. Un incubo in cui non esiste più il vero e il falso, giusto o sbagliato, in cui è impossibile fidarsi delle istituzioni, dei media o anche delle altre persone.

Questa è la vera “Bestia”. E non parlo dell’ormai leggendario sistema di micro-targeting sviluppato dallo spin-doctor della “Lega” Luca Morisi e che – secondo alcuni eminenti giornalisti – è alla radice del successo di Matteo Salvini. La “Bestia” di Morisi non è altro che un prontuario di regole per l’uso dei social network come se ne trovano tanti in rete. Il nome però è bello.

No. Questa è un’altra Bestia. Una Bestia con tante facce. Una Bestia che – in forme diverse – popola il nostro immaginario da millenni. Una Bestia che disgrega la società e produce paura, divisione e caos.

E vidi salir dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi, e sulle teste nomi di bestemmia. […] e tutta la terra maravigliata andò dietro alla bestia; e adorarono il dragone perché avea dato il potere alla bestia; e adorarono la bestia dicendo: Chi è simile alla bestia? e chi può guerreggiare con lei?

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Testi

Il blob, i testi della quarta puntata

C’è un video che è circolato molto alcune settimane fa. Siamo a Torre Maura, alla periferia di Roma. C’è un ragazzo con una giacca della tuta color antracite che parla con alcuni uomini. Il ragazzo si chiama Simone. Gli uomini sono esponenti dell’organizzazione neofascista “Casa Pound”. Sono qui perché in una palazzina del quartiere devono essere alloggiate alcune famiglie rom e loro non vogliono. Portano la criminalità, dicono.

Simone, che ha solo 15 anni, dice che è ingiusto prendersela colle minoranze. E tiene testa – da solo – a questi uomini, anche quando uno di loro gli viene a pochi centimetri e lo prende per il collo con aria di minaccia.

E’ un video che a guardarlo fa venire rabbia – e anche un po’ di paura.

C’è però una cosa che mi ha particolarmente colpito nel video – e che non riguarda Simone. E’ una frase che pronuncia uno degli uomini, un tipo colla barba e un berretto da pescatore.

FONTE

“Tu sei uno su cento. Siete 10 su mille”, dice l’esponente di “Casa Pound”. Simone, vuol dire l’uomo, è parte di una minoranza. Una minoranza esigua, irrilevante.

E’ vero? Mi chiedo. E’ vero che quello che dice Simone è condiviso solo da poche persone – e quindi, per converso, quelli che la pensano come l’uomo col cappello sono maggioranza?

Facciamo due conti.

“Casa Pound” non è esattamente un partito di massa. Alle elezioni comunali a Roma ha preso poco più dell’1 per cento. E allora che cosa vuol dire il pescatore neofascista? Forse che in Italia 99 persone su 100 hanno posizioni analoghe alle loro sui rom e sulle minoranze. Beh… Diamogli il beneficio del dubbio.

E’ vero che l’antiziganismo – cioè sentimenti negativi contro i rom e sinti – in Italia è molto diffuso, come ha messo in luce una ricerca dell’istituto di ricerca statunitense Pew Center. Parliamo di percentuali inquietanti – sopra l’80 per cento. Ma questo non vuol dire che la maggioranza degli italiani appoggi partiti politici ostili alle minoranze – specificamente a quella rom. Anche mettendo insieme le preferenze di tutti questi partiti si arriva intorno al 40 per cento. Meno della metà degli elettori.

Eppure quelle parole pesano. “Tu sei solo”, dice l’uomo col berretto a Simone mentre lui e i suoi camerati convergono sul ragazzo. Noi siamo tanti.

Il fatto è che da un po’ di tempo a questa parte ho la sensazione che molte persone in Italia e in Europa si sentano come Simone – strette, assediate da una folla ringhiante che ripete: voi siete soli. Noi siamo tanti.

Questa sensazione è particolarmente forte a pochi giorni da un’elezione europea che qualcuno ha definito “decisiva” per il destino del Vecchio Continente.

E’ un’onda che sale, come la hanno chiamata gli ideologi della nuova destra sovranista Steve Bannon e Geert Wilders. Una massa viscosa di risentimento e di livore – un lento, devastante tsunami nazionalista e razzista – che rischia di travolgere la democrazia liberale.

E noi, l’élite, i buonisti, gli illusi, i rosiconi, siamo lì sulla riva che guardiamo il fronte dell’onda avvicinarsi. E ci sentiamo soli e impotenti.

Se però un ragazzo di 15 anni ha tenuto testa alla marea nera forse non tutto è perduto. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col berretto da pescatore. “Almeno io penso”, risponde Simone.

Già. A forza di sentirsi assediati, schiacciati dalla massa ribollente che avanza forse ci siamo dimenticati di pensare. Perché pensare aiuta a sentirsi meno soli. Perché, onestamente, di starmene qui a piangermi addosso e aspettare l’onda beh – per citare Simone –  “nun me sta bene che no”.

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Onda, massa, marea nera: non è che a sto giro stai un po’ esagerando, Fabio? Dice la mia voce interiore. Non è che a te – come a tanta parte della sinistra boriosa e frignona – rode semplicemente che ci sia una maggioranza di persone che la pensa diversamente da te?

E allora falla finita co’ sta storia della massa, della marea scura – come il blob alieno di quel vecchio film.

Chiama le cose col loro nome. Questo è il popolo.

È il demos che nell’agorà di Atene cessava di essere suddito e diventava soggetto politico. È il “peuple” che si scuote di dosso il giogo della tirannide di cui parla Rousseau. È il “We the people” che apre la Costituzione americana, atto di nascita della democrazia liberale. È il popolo cui la Costituzione italiana nata dalla Resistenza attribuisce la so-vra-ni-tà.

Non è il popolo a essere un’entità aliena. Sei tu. Stacce – come direbbe Simone.

Sì. Tutto giusto, voce interiore. Però, se permetti, non sono del tutto d’accordo. Il popolo è un’idea molto poetica, per carità – e quando penso all’agorà, ai Padri Fondatori, alla Costituente o al pueblo unido da persona di sinistra avverto un fremito di libertà.

Ma so anche che questo popolo unito e universale non è mai esistito.

Ad Atene c’era tutta una parte della popolazione – stranieri e abitanti delle campagne – che era di fatto esclusa dalla vita pubblica. E poi c’erano gli schiavi. Schiavi come li avevano anche i padri fondatori della nazione americana. E se è vero che il peuple di Rousseau è riuscito – almeno per un po’ – a scrollarsi il giogo dalle spalle è anche vero che l’ha fatto per ficcare la testa nel giogo della ghigliottina.

Ah… E già che ci siamo: in tutta questa Storia quando parliamo di popolo parliamo solo di uomini. Le donne sono popolo nel senso di soggetto politico attivo da meno cento anni.

Non fraintendetemi. Non dico che il popolo sia cattivo. Nella sua accezione più nobile essere “popolo” è forse la massima realizzazione del nostro naturale istinto di aggregazione.

Dico solo che il popolo è un’invenzione, un simulacro.

E meno male. Perché se c’è una cosa che la storia della democrazia ci ha insegnato è che fintanto che il popolo resta un’entità astratta – luminosa e mutevole come una nuvola – va tutto bene. Ognuno può guardare una nuvola e dire: secondo me è un’automobile, secondo me è un drago.

Il problema sorge quando la nuvola si condensa e diventa massa – quando cioè qualcuno pretende di dire chi è o che cosa è il popolo. Allora da nuvola diventa blob.

Ne sanno qualcosa i membri dell’Assemblea Costituente. Non è sicuramente un caso che questo illustre consesso, questa squadra speciale – se mi si permette – questi Avengers nati dalla lotta alla violenza e alla repressione del nazifascismo il popolo sovrano lo abbiano voluto piazzare subito lì, all’inizio.

La sovranità appartiene al popolo. Zac. Preciso. Essenziale.

Ma la frase va avanti:

La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. E’ come dire: il popolo decide, ma qui c’è una lista di cose su cui il popolo non dovrebbe decidere.

La cosa sembra semplice, ma, a quanto pare, i membri dell’Assemblea hanno dibattuto molto accanitamente sulla questione.

E si capisce perché. Dopo vent’anni di dittatura e due anni di occupazione militare, parlare di “sovranità del popolo” era sicuramente un atto profondamente liberatorio. Ma i Padri Costituenti ci vanno piano – forse perché hanno ancora davanti l’immagine della folla osannante davanti al balcone di Piazza Venezia. Sapevano bene che il popolo, come diceva anche Rousseau, può sbagliare – e può essere sedotto.

C’è però un altro limite – più sottile – che la Carta mette al popolo: da nessuna parte in questo documento così efficiente ed essenziale si dice chi o che cosa è questo popolo. E non è una svista.

Uno potrebbe pensare che siccome la sovranità appartiene al popolo e in democrazia comanda la maggioranza, il popolo sia la maggioranza degli elettori. Ma non è così: il popolo è un’entità estremamente complessa – non riducibile a un numero.

Lo dice bene il Costituzionalista Maurizio Fioravanti: “Il popolo è sovrano perché, e in quanto, la sua infinita complessità è rappresentata, senza eccezioni, nel  Parlamento. E – continua Fioravanti – il Parlamento è sovrano perché è il luogo in cui la infinita complessità, e la totalità, del popolo è rappresentata,  in modo tale da essere capace di produrre sovranità, leggi e governi”. (Fonte:)

Cioè: il popolo in un sistema democratico dobbiamo essere tutti – un concetto inclusivo e non esclusivo. Perché se comincio a dire: tu sei popolo, tu no, le cose si mettono male. Per saperlo i membri della Costituente non dovevano neppure guardare troppo lontano.

Quando alla fine dell’ ‘800 fu costruito il palazzo del Reichstag – il parlamento del neonato Regno di Germania – l’architetto, Paul Wallot, volle mettere sull’architrave la frase “Dem deutschen Volke” – al popolo tedesco, che voleva dire che quello era un monumento alla sovranità e all’unità dei tedeschi. Fino a ieri eravamo divisi – voleva dire – oggi siamo popolo.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il Volk – come spesso accade – si unì intorno al concetto di difesa della Patria. Ma non durò molto. Già dalle prime battute della Repubblica di Weimar gli scontri – spesso violenti – tra partiti della destra e della sinistra portarono alla creazione di nuovi fronti: operai contro borghesi, Sud contro Nord, nazionalisti contro internazionalisti.

Non sorprende che molti ce l’avessero coi partiti. E che volessero farla finita coi settarismi e le risse. Molti osservatori hanno riscontrato delle somiglianze colla situazione attuale. E battute che circolavano all’epoca potrebbero essere prese da un’intervista di oggi: “Io intendo semplificare la democrazia”, diceva per esempio un politico emergente. “Non rispondo al sistema dei partiti, ma solo al volere del popolo”.

Pare giusto, no? Basta coi partiti. Basta con destra e sinistra. È ora che il popolo decida per sé.

Già, ma quale popolo? Tutti nella Repubblica di Weimar, da destra a sinistra, parlano di “Volksgemeinschaft”, comunità di popolo. E poi aizzano i propri sostenitori contro il non-popolo di turno, siano essi borghesi, imboscati, secessionisti.

Ci vorrebbe che uno lo unisse questo popolo – colle buone, ma, se serve, anche colle cattive. E c’è uno che sembra avere tutti i requisiti. È quel politico emergente che voleva “semplificare la democrazia”, ricordate? Il suo nome – avete indovinato – è Adolf Hitler.

E Hitler la Volksgemeinschaft, la comunità di popolo la unisce davvero. E come? Anzitutto indicando chi al popolo non appartiene: omosessuali, disabili, zingari, ebrei. Volksfremd, li chiama il regime – estranei al popolo. E poi rendendo il popolo onnipresente, universale. Ogni elemento dell’apparato pubblico diventa Volks- qualcosa: Volksgesundheit (salute popolare), Volkseinkommen (reddito popolare), Volksaufklärung (istruzione popolare). (Fonte: https://www.bpb.de/izpb/137211/volksgemeinschaft?p=all)

Non ci sono più gli operai e gli impiegati, i borghesi e i proletari. C’è solo il popolo, un’unica grande entità dotata di un’unica volontà.

Oggi è facile pensare ai tedeschi di allora come a una massa di fantocci nelle mani del regime. Ma non era così: per molti tedeschi, messi in ginocchio dalla crisi economica e abbandonati dalle istituzioni, essere popolo voleva dire essere forti.

La scrittrice Melita Maschmann – all’epoca leader della sezione femminile dei giovani nazisti – lo dice senza mezzi termini: “Ci sentivamo per la prima volta parte di qualcosa di grande e essenziale”.

E chi non è parte di questa cosa grande e essenziale… beh… non è parte del popolo. E se non sei parte del popolo, allora sei volksfremd – estraneo al popolo. E chi è estraneo al popolo deve sparire.

Così, il popolo, il Volk, si allarga e si compatta, tenuto insieme da un sentimento più forte dello semplice spirito comunitario o del patriottismo – un sentimento che paralizza e rende docili. La paura.

Non è un caso che nel Dopoguerra la parola Volk in Germania sia stata quasi del tutto bandita dalla politica. Per i tedeschi essere popolo – quel popolo – è diventato difficile. (Fonte:)

La parola è tornata di moda colla caduta del Muro – Wir sind das Volk, gridavano i tedeschi dell’Est nell’Ottobre dell’ ‘89: noi siamo il popolo. In un interessante ricorso storico questo Volk era più simile al popolo dell’architrave del Reichstag – unito e sovrano.

Lo stesso slogan però è stato ripreso anche in tempi più recenti – con un significato diverso: “Wir sind das Volk” è anche lo slogan delle manifestazioni della nuova destra contro l’Islam e gli immigrati. Noi siamo il popolo: i tedeschi. Loro no. Loro sono volkfsfremd – estranei al popolo.

È proprio vero: la storia si ripete, prima come tragedia. Poi come video di Instagram.

In effetti sono in tanti di questi tempi a parlare volentieri di popolo – soprattutto a destra.

Questa è Marine Le Pen, leader del Rassemblement National francese, nel 2018. “Contro la destra dei soldi e contro la sinistra dei soldi, io sono la candidata del popolo”, dice. Anche lei è una a cui piace semplificare: Là c’è l’elite parigina: ricca, corrotta e maneggiona. Qui c’è lei, Marine, la voce del popolo.

Anche se è cresciuta in una villa in una delle gated communities più esclusive della Capitale a Marine il popolo piace proprio tanto. “Il popolo”, ha detto in un’intervista di alcuni anni fa, “ha sempre ragione, anche quando ha torto” (Fonte: https://www.letemps.ch/monde/peuple-toujours-raison-meme-tort). Queste cose gliele deve avere insegnate suo padre Jean-Marie – ex capo del Front National – che già nel 2007 diceva: “il popolo ha ragione e nessuno può avere ragione contro di lui”.

È un concetto quasi mistico: il popolo come unica fonte di verità. Com’è il detto: Vox populi, vox dei. E chi dissente… Beh… Non è popolo. Anzi. E’ un nemico del popolo.

“Quando diffondete notizie false siete nemici del popolo”, dice Donald Trump a un reporter della rete televisiva CNN a novembre del 2018. Un paio di settimane prima su Twitter era stato più esplicito, chiamando i media “i veri nemici del popolo”.

Anche al miliardario Trump il popolo piace proprio tanto.

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“Voglio togliere il potere alla casta dei politici e renderlo al popolo”, dice nel suo discorso di insediamento.

In tutti questi esempi si nota uno schema ricorrente: chi parla di popolo lo fa in opposizione e in contrasto con una non-meglio definita élite: media, politici, intellettuali – non necessariamente benestanti ma istruiti e un po’ snob. E questa élite, ovviamente, non appartiene al popolo. E’ volksfremd – estranea al popolo.

Forse il più chiaro è stato Matteo Salvini, che, poco dopo le elezioni del 2018, ha proprio detto così: «Non esistono più destra e sinistra, esiste solo il popolo contro le élite».

Per i politologi la dottrina che divide la società in popolo puro ed élite corrotta ha un nome: populismo. E se magari in passato l’etichetta di populista aveva una connotazione negativa, oggi essa viene rivendicata come una medaglia al valore.

Questo qui è… un momento… mmmmh… ah sì. Giuseppe Conte. Presidente del Consiglio dei Ministri. E se lo dice anche lui…

Ma in realtà di questi tempi un po’ tutti in Italia – populisti e non, a destra, a sinistra, al centro – parlano volentieri di popolo.

Ed è una cosa interessante perché negli ultimi decenni in Italia la parola “popolo” è stata usata con una certa parsimonia. Al limite si sentiva parlare di popolo del web, popolo giallorosso, popolo bue. Sì, c’era il “Popolo della Libertà” di Berlusconi ma quella suonava un po’ come una versione singhiozzante dell’originario “Polo delle Libertà”.

Se si fa una semplice ricerca su Google anno per anno si vede che tra articoli, blog, commenti e post sui social nel 2009 il lemma “popolo italiano” – al netto di espressioni formalizzate come “in nome del popolo italiano” – è stata utilizzata circa 1.400 volte. L’anno scorso è stata usata più di 14.000 volte – dieci volte di più.

Insomma: c’è una gran voglia di popolo.

E in parte è comprensibile. Perché negli ultimi anni non era per niente facile sentirsi popolo. Perché per essere Popolo colla P maiuscola bisogna avere pulsioni, emozioni, esperienze e obiettivi comuni. Bisogna condividere un destino.

Ma con un futuro sempre più precario, la disoccupazione che galoppa e più di dieci anni di crisi economica alle spalle è difficile condividere alcunché. Ed è pure difficile avere obiettivi comuni quando l’obiettivo primario è arrivare a fine mese.  

Ed ecco che il Popolo si frammenta, si liquefà come scrisse il presidente del Censis Giuseppe De Rita già dodici anni fa, prima della crisi: Viviamo – diceva all’epoca De Rita – una “disarmante esperienza del peggio” che ci rende poltiglia, mucillagine – un insieme inconcludente di “elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega.

E quelli che si qualificavano allora come “partiti del Popolo” – Forza Italia e il Partito Democratico – erano secondo De Rita proposte prive di senso, nel momento in cui nessuno crede più a “uno sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti”, uno “sviluppo di popolo”. (Fonte)

E allora? E allora ecco arrivare una nuova generazione di politici che promette di dare nuova forza al Popolo – con sentimenti e obiettivi comuni: occupazione stabile, reddito di cittadinanza, più sicurezza.

Ed ecco che molte persone insoddisfatte, deluse, frustrate trovano in quest’idea di popolo una nuova forma di appartenenza. Essere popolo li fa sentire forti e sicuri. Li fa sentire parte di qualcosa di “grande ed essenziale”. Suona familiare?

Quando nel giugno del 2018 Lega e Movimento Cinque Stelle si accordano per formare un esecutivo molti in rete celebrano il nuovo governo dicendo che finalmente c’è un “governo eletto dal popolo”. Ovviamente il popolo non elegge i governi ma tutt’al più i parlamentari – e in più la coalizione si è formata strada facendo, nella migliore tradizione proporzionalista. Ma tant’è.

I due partiti insieme arrivano intorno alla metà dei voti (circa 32 per cento i Cinque Stelle e 17 per cento la Lega). Eppure fin da subito l’esito del voto viene trattato come un plebiscito popolare. Nel luglio 2018 il neo Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti della Lega (un partito che ha appena preso il 17 per cento, ricordiamolo) dice tout-court che in Italia non c’è più più l’opposizione – perché, dice Giorgetti, il popolo è con noi. (Fonte)

E’ una visione totalizzante del popolo che fa proseliti. Anche a sinistra.

Come già avvenuto in America dopo la vittoria elettorale di Donald Trump molti politici di area liberale e socialdemocratica cominciano a dire che i partiti della sinistra hanno perso il contatto col popolo. La ragione? La sinistra si sta occupando troppo delle minoranze – immigrati, omosessuali, ambientalisti – e dimentica così le aspirazioni e i desideri del popolo inteso come maggioranza delle persone.

E’ una storia avvincente. In pochi mesi non solo è rinato un popolo che sembrava morto e sepolto ma adesso sappiamo anche chi e che cosa è questo popolo: il popolo è chiunque si identifichi coll’attuale linea di governo. Gli altri non sono popolo. Sono volksfremd.

E così il popolo – quella nuvola impalpabile di ambizioni, pulsioni, emozioni ed esperienze – si condensa in un’entità concreta, dotata di forza e di volontà.

Eppure basterebbe dare un’occhiata a che cosa pensano davvero gli italiani per rendersi conto che no, il pueblo è tutt’altro che unido.

Prendiamo la questione immigrazione – un tema su cui il nuovo esecutivo ha fatto leva fin dall’inizio. E un tema su cui, apparentemente, il popolo si esprime in maniera univoca. Vari sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli italiani è decisamente a favore della linea dura contro l’immigrazione portata avanti dal governo: porti chiusi, immigrati a casa eccetera. (Fonte)

Va detto che questi sono cosiddetti sondaggi istantanei che documentano le risposte a quesiti secchi in un periodo di tempo molto limitato.

Se si guarda invece ad alcuni sondaggi che coprono periodi più lunghi e rilevano le risposte a un complesso di quesiti salta fuori un quadro un po’ diverso.

In base a una ricerca dell’istituto Ipsos Mori (Fonte: LINK) del 2018 solo un quarto degli italiani sostiene apertamente una posizione di radicale chiusura delle frontiere come quella portata avanti dall’attuale inquilino del Viminale. Circa un terzo degli italiani è, invece, favorevole ad una politica dell’accoglienza basata su principi di umanità e tolleranza. E non si tratta solo di intellettuali radical chic, ma di molti giovani (anche senza titoli di studio) e anziani, soprattutto se vicini ad ambienti cattolici.

In mezzo c’è la cosiddetta maggioranza inquieta. Questa è composta da persone senza chiaro orientamento e da coloro che si sentono insicuri o “abbandonati” dallo Stato – disoccupati, pensionati, persone di mezza età senza titoli di studio. Le loro posizioni riguardo ad immigrati e richiedenti asilo sono lo specchio delle loro ansie. Pur essendo generalmente preoccupati del futuro che li attende, essi ritengono che non si debba rinunciare ai principi di umanità – specialmente quando si tratta di proteggere famiglie e minori.

E’ un segnale incoraggiante: il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. E gli italiani non sono così stronzi come vorrebbe qualcuno.

Tutto bene dunque? Non tanto: un’altra indagine dell’istituto “Pew Center” rileva che l’opinione degli italiani sta cambiando molto rapidamente. Restando sul tema immigrazione: nel 2017 circa la metà degli italiani vedeva gli immigrati come un peso per la società. Un po’ meno della metà li vedeva invece come una risorsa. Nel 2018 lo scarto è massiccio: 54 per cento ribadisce che gli immigrati sono un peso. E solo il 12 per cento li ritiene una risorsa. (Fonte: )

Il popolo non la pensa tutto alla stessa maniera. Uno guarda la nuvola a vede un elefante. Un altro ci vede un cammello. Il fatto è che se però uno ti dice: “vedi quella nuvola a forma di Kamchatka” è probabile che tu ci veda la Kamchatka.

Ripenso a Simone e alla marea scura che gli si stringe intorno a Torre Maura. “Tu sei uno su cento”, dice l’uomo col cappello.

E mi viene in mente che la cosa che mi sgomenta di più di questo video non è il gruppo di neofascisti che si stringe intorno a un ragazzo solo. No: è sapere che tutto intorno ci sono persone che potrebbero dire qualcosa, magari intervenire, magari semplicemente mettersi in mezzo. E invece rimangono tutti a guardare.

I populisti – dice il politologo olandese Cas Mudde – dicono di rappresentare una maggioranza silenziosa, mentre invece rappresentano solo una minoranza molto rumorosa – una minoranza aggressiva e pervasiva, che riempie gli spazi lasciati vacanti dai partiti popolari. Come a Torre Maura. (Fonte: )

In Europa sovranisti e populisti di destra si avviano a prendere circa un quarto dei voti. Sono percentuali importanti, senza dubbio. E loro non mancano mai di farlo notare. Ma c’è un aspetto che viene spesso tralasciato quando si parla dei loro successi: a differenza dei partiti di massa i populisti – soprattutto i populisti di destra – non puntano a massimizzare il consenso ma a creare un nucleo di sostenitori, uno zoccolo duro militante.

Non a caso la comunicazione pubblica dei leader populisti da Trump a Le Pen fino a Orban e Salvini è consapevolmente radicale nel linguaggio e negli atteggiamenti. E’ fatta per dividere – per esaltare o far incazzare. Senza vie di mezzo. Si rivolge insomma ai fan, alle frange oltranziste. E sono queste frange – iperattive e rumorose – a produrre l’impressione di una massa in movimento, di un popolo in armi.

Ma questa strategia ha un difetto. Se è vero che un elettore europeo su quattro si identifica coll’agenda dei populisti è anche vero che tre su quattro sono veementemente contrari ai loro proclami.

L’Italia è attualmente il paese dell’Europa occidentale in cui i populisti di destra hanno allargato di più il proprio bacino elettorale. Ma anche se la Lega dovesse sfondare il tetto del 40 per cento c’è apparentemente più di una metà degli italiani che la politica ringhiosa e fascistoide di Salvini e compagnia “nun je sta bene che no”.

Oh… Ma allora dove sono tutti questi italiani? Com’è che se vado al bar sento solo quelli che sbraitano contro gli immigrati e i rom? Com’è che i social network sono un turbine di foto di Salvini che mangia maritozzi e hashtag prima gli italiani?

Ho un amaro sospetto: quelli che la pensano diversamente ci sono. Ma non si fanno sentire.

Mentre scrivo l’uomo col cappello da pescatore è da poco riapparso in un altro quartiere alla periferia di Roma, Casal Bruciato. Anche qui un appartamento in casa popolare è stata assegnata a una famiglia rom. L’uomo col cappello e i suoi amici sono prontamente sul posto. Ci ha chiamato il popolo, dicono. (Fonte🙂

(Fonte)

E il popolo che si raccoglie intorno al presidio ha subito molto da dire.

AUDIO

Alla fine la famiglia riesce a entrare nello stabile, ma solo sotto scorta della polizia.

AUDIO

LINK

Arriva un gruppo di manifestanti del Movimento per la Casa. La polizia fa cordone intorno ai neofascisti. “Nemici del popolo”, gridano questi ai manifestanti dell’altro capannello.

Gli abitanti delle case popolari stanno alla finestra e guardano i tafferugli per strada. E’ una casa popolare come ce ne sono tante in Italia – come quella in cui sono cresciuto. Decine di famiglie vivono qui porta a porta. Tutti si conoscono – o almeno tutti si conoscevano. I bambini giocano insieme in cortile.

E allora capisco: non sono i neofascisti la massa, la marea, il blob. E non è nemmeno il popolo affacciato alla finestra. No: il blob è l’indifferenza e il cinismo che serpeggiano nei cortili, nelle scale e nei corridoi – il vuoto che c’è tra appartamento e appartamento, tra famiglia e famiglia, tra noi e loro, tra popolo e non-popolo. Il vuoto in cui si infilano l’uomo col cappello e i suoi amici.

Bisogna riempire questi vuoti – colle parole, colle azioni. Tornare a parlare – anche con quello che al bar inveisce contro zingari e neri. Perché solo così la poltiglia, la mucillagine può ricomporsi pezzo per pezzo. E magari, col tempo, ridiventare popolo.

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Testi

Leviatano parte seconda, i testi del terzo episodio

Ottobre 1940. Atlantico settentrionale – circa 1000 miglia dalla costa africana. Sono le prime battute della Seconda Guerra Mondiale. C’è un piroscafo belga in rotta verso la Liberia. A bordo ci sono marinai e armamenti della Marina di Sua Maestà Britannica. Nella notte il piroscafo incrocia un sommergibile italiano, il Cappellini. Partono dei colpi di cannone. Il piroscafo viene colpito e comincia ad affondare. L’equipaggio si mette in salvo su una lancia, ma siamo in mezzo all’Atlantico – la probabilità di incrociare un’altra nave è abbastanza remota.

Allora il capitano del Cappellini, Salvatore Todaro, dà ordine di rimorchiare la scialuppa coi soldati nemici fino alla costa più vicina. Ma con onde alte come case di tre piani l’operazione risulta difficile. Todaro allora accoglie tutti e 21 i membri dell’equipaggio nel poco spazio disponibile a bordo – soldati che, ricordiamolo, aveva appena preso a cannonate – e li porta, incolumi, fino alle Azzorre.

Il Capitano Todaro non è un’eccezione. Le cronache militari, fin dai tempi della battaglia di Nasso tra Ateniesi e Spartani, sono piene di episodi analoghi: ufficiali di Marina che interrompono le operazioni per salvare nemici finiti in balia delle onde. La ragione è semplice. Chiunque si sia trovato almeno una volta in mezzo a una tempesta in alto mare lo sa: il mare è l’ultimo confine, un luogo ostile per eccellenza, devastante nella sua forza, imprevedibile nella sua violenza. E’ per questo motivo che in mare non vigono le stesse regole che vigono sulla terra ferma. Sul mare l’uomo sa di essere in balia di forze più grandi. Per questo chi va per mare è per così dire costretto alla solidarietà – e le divisioni e la politica e le guerre non contano più niente; perché in mare siamo, letteralmente, tutti nella stessa barca.

Non a caso, il dovere assoluto di salvare vite umane in mare – non importa se amici o nemici – è stato uno dei primi capisaldi dei trattati internazionali del XX secolo – un dovere sancito ancora oggi dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare

Fonte: LINK

Eppure c’è sempre stato – e c’è ancora – chi pensa che questa legge di umanità, questo stato di eccezione, questo imperativo morale debba piegarsi alla contingenza politica. E che chi salva vite umane sia un irresponsabile, o peggio, un criminale.

Rientrato alla base di Bordeaux, il Capitano Todaro viene convocato d’urgenza dai suoi superiori. La notizia del salvataggio ha generato forti malumori. Si parla di corte marziale. Siamo in guerra – in fin dei conti. “Un ufficiale tedesco – dice un ammiraglio – non avrebbe mai commesso una simile imprudenza”. La risposta di Todaro è secca: “Gli altri – dice il Capitano – non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle” (Fonte: LINK )

Todaro dice una cosa fondamentale: Salvare i naufraghi è una questione di civiltà. Su una cosa però si sbaglia. Un capitano tedesco farebbe altrettanto – anche se questo significa rischiare la galera.

“Salvare i naufraghi è prima di tutto un dovere”, dice il Capitano tedesco Stefan Schmidt. Schmidt sa che cosa vuol dire fare il proprio dovere – anche se questo comporta dei rischi. Dopo aver salvato 37 persone da un barcone nel Canale di Sicilia, si è visto mettere le manette ai polsi dalle autorità italiane. E si è sentito chiamare “scafista” e “trafficante di uomini”.

Oggi, niente di nuovo. Ma non lo era nel 2004, quando la sua nave, un cargo dell’Organizzazione non Governativa tedesca Cap Anamur, fu sequestrata e l’equipaggio arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. All’epoca la vicenda generò un mezzo caso diplomatico, con esponenti del governo tedesco che chiamavano Roma dicendosi “esterrefatti e indignati” e chiedevano l’immediata liberazione del comandante. (Fonte: http://www.spiegel.de/politik/ausland/cap-anamur-wieczorek-zeul-wirft-italien-unertraegliche-hinhaltetaktik-vor-a-308846.html)

Cinque anni ci sono voluti perché Schmidt e il responsabile dell’ONG Elias Bierdel fossero scagionati da tutte le accuse. Ma intanto il caso della Cap Anamur ha generato un precedente importante – un precedente che avrà un ruolo fondamentale in un’altra guerra di mare, diversa da quella in cui combattevano ufficiali gentiluomini come il Capitano Todaro – una guerra di pirati e avventurieri, di spie e delatori, una guerra fredda e parecchio sporca, come le acque del Canale di Sicilia in inverno.

E la prima vittima di una guerra, si dice, è sempre la verità.

Il primo personaggio di questa spy-story è indubbiamente degno di un romanzo di Tom Clancy: Christopher Catambrone è un eccentrico milionario originario della Louisiana ma con radici in Calabria. Poco più che ventenne comincia a lavorare per una compagnia di assicurazioni che copre i contractors in aree di crisi: Iraq, Afghanistan, Somalia. È un assicuratore un po’ particolare: invece di calcolare premi e valutare danni, accompagna convogli armati e organizza la liberazione di ostaggi. Un uomo d’azione. (Fonte: LINK)

E rimane un uomo d’azione anche quando, nell’estate del 2013, compra uno yacht per fare una crociera nel Mediterraneo colla famiglia. Mentre lo yacht solca il Canale di Sicilia Catambrone racconta d’aver visto una giacca a vento galleggiare nell’acqua. Il comandante dello yacht gli spiega che in quel tratto di mare si trovano sempre i resti dei barconi andati a fondo: vestiti, giocattoli, a volte corpi.

Catambrone, l’assicuratore col giubbotto antiproiettile, abituato a vedere la vita umana come un asset, è costernato: gli pare impossibile che non ci sia modo di impedire questa strage – un modo per salvare uomini, donne e bambini da una morte orribile. Da uomo d’azione gli basta qualche minuto per trovare una soluzione: li salverà lui.

Nel giro di pochi mesi compra una nave, la arma e mette al comando proprio lo skipper della sua crociera – un veterano della Marina maltese. E fonda un’Organizzazione Non Governativa, la Migrant Offshore Aid Station. È la prima ONG specializzata nel salvataggio di naufraghi nel Mediterraneo.

Questo è l’anno in cui nel Mediterraneo Centrale naviga la missione italiana Mare Nostrum. Ma Catambrone e i suoi hanno lo stesso molto da fare: Nei primi cinque mesi in mare MOAS salva circa 5.000 persone. A chi gli chiede perché lo faccia Catambrone risponde quasi con stizza: “Perché salvare vite umane è un dovere e chi pensa il contrario è un razzista e non merita un posto nella nostra società”.

Pochi mesi dopo Mare Nostrum chiude le operazioni perché, dicono vari governi europei, è diventata un “pull factor”, un fattore di attrazione. La missione viene sostituita da un’operazione europea con circa un decimo dei mezzi. A questo punto MOAS è praticamente sola in mare. Ma non per molto.

Proprio mentre, nel novembre 2014, il governo italiano annuncia la fine di Mare Nostrum, un 42enne antiquario e mobiliere berlinese sta camminando con alcuni amici lungo il vecchio tracciato del Muro . Harald Höppner è nato a Berlino Est e, dice, sa bene che cosa vuol dire essere chiuso in una gabbia. E’ nato e cresciuto su una frontiera – una frontiera che può costare la vita. (Fonte: LINK)

E mentre Höppner e i suoi amici camminano lungo il Muro, il discorso cade sul tema dei naufragi nel Mediterraneo. Senza Mare Nostrum i morti in mare potrebbero aumentare a dismisura, si dicono Höppner e i suoi amici. E non c’è da credere a chi sostiene che se aumenta il rischio non verrà più nessuno. Del resto – dice Höppner – quelli che volevano passare oltre il Muro non li fermavano neanche le pallottole.  

E allora? Che fare? E’ un momento. Un’ illuminazione. Qualche soldo da parte ce l’ha, dice l’antiquario: i suoi due negozi in centro a Berlino vanno alla grande. E conosce pure un paio di spedizionieri e armatori. Pochi giorni dopo insieme ad un socio compra un peschereccio dismesso per 60.000 euro e lo rimette in sesto. E fonda l’organizzazione “Sea Watch”. All’inizio del 2015 la Sea Watch 1 salpa dal porto della Valletta.

E da subito Sea Watch ha molto da fare. Höppner e i suoi amici avevano ragione: Con o senza Mare Nostrum il numero di persone che tenta di passare il mare resta alto. Nell’aprile del 2015 un peschereccio con 1.000 persone a bordo cola a picco – è la strage più ingente del dopoguerra. E’ un segnale d’allarme che porta ad una grande mobilitazione internazionale. Agli avventurieri umanitari come Catambrone e Höppner si uniscono adesso grandi organizzazioni internazionali con decenni di esperienza e decine di migliaia di collaboratori come Medici senza Frontiere e Save the Children. Arrivano organizzazioni e volontari dalla Germania, dall’Olanda, dalla Spagna. Tra il 2015 e il 2016 la flotta della cosiddette ONG arriverà a contare una dozzina tra imbarcazioni, aerei e droni da ricognizione. E’ uno dei più grandi sforzi umanitari del dopoguerra. (Vedi: LINK 1 e LINK 2)

Ma nonostante gli sforzi delle ONG la situazione nel Mediterraneo Centrale peggiora. La rotta libica è infatti diventata più pericolosa. Il motivo principale è che nel 2015 cambia la strategia degli scafisti.

Dall’anno prima la Libia è precipitata in una spirale di violenza con varie milizie che si contendono il territorio. E le milizie fanno i soldi col contrabbando – di droga, di armi e anche di persone. Gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana diventano così merce di scambio – venduti come schiavi o trasportati come cargo. E anche il business degli scafi diventa roba loro, delle milizie – un business molto redditizio, ma anche rischioso.

Nel 2015 l’Unione Europea ha infatti lanciato la missione navale Eunavfor Med, con uno scopo: smantellare la rete degli scafisti. Come? Requisendo e distruggendo i barconi. L’idea pare giusta, solo che c’è un problema: che senso ha salpare con un barcone di legno o un peschereccio se si sa che questo verrà distrutto? Allora molto meglio usare dei gommoni usa e getta da due lire. Ci sono ditte cinesi che li producono e vendono online. E li chiamano “refugee Dinghies”, “gommoni per rifugiati”. (Fonte: (LINK)

E questo è esattamente quello che fanno gli scafisti. I “Dinghies” sono fatti per arrivare al limite delle acque territoriali libiche. Lì poi ci sono le navi e quelle – dicono gli scafisti a chi scappa dalla Libia – vi possono salvare.

Ma quali navi? Le missioni europee Triton e Eunavfor Med incrociano molto più a Nord, quasi in acque italiane. Casualità. O forse una strategia per evitare il “pull factor”, come suggerisce uno studio della Goldsmith University di Londra. Ma i gommoni partono lo stesso – e vanno a fondo lo stesso. Anzi, ne partono sempre di più. E così le imbarcazioni delle ONG – e, in parte, anche le navi della guardia Costiera italiana – sono costrette ad avvicinarsi sempre di più al confine delle acque libiche. Si crea così un sistema perverso in cui sia i naufraghi che le ONG diventano pedine di un gioco – un gioco al massacro, che sta per diventare – se possibile – ancora più sporco. (Fonte: LINK)

Certo, se non ci fossero navi al largo della Libia il gioco non funzionerebbe – si dice qualcuno. Sì, magari lì per lì affogano un po’ di persone. Ma a lungo andare le partenze si fermerebbero. L’idea non è nuova. Vi ricorderete: lo avevano detto anche ai tempi di “Mare Nostrum”. La teoria è smentita da vari studi. Ma non importa: mentre il numero di partenze e il numero di morti in mare viaggia verso nuovi, terrificanti record, sempre più persone in Europa dicono una sola cosa: le ONG devono sparire. (Fonte: LINK)

E come? Volontari come Catambrone e Höppner, organizzazioni come “Medici senza frontiere” e “Save the Children” sono eroi popolari che agiscono per spirito umanitario. Ma se così non fosse? Se invece gli eroi senza macchia e senza paura avessero un secondo fine? E se fossero tutti parte di un piano?

Gli eroi, si sa, sono come acrobati: tutti applaudiamo il loro coraggio ma, sotto sotto, l’emozione più grande è vederli cadere.

Tutti abbiamo qualche segreto. E se qualcuno vuole portarlo alla luce basta che guadagni la nostra fiducia. E qui entra in gioco la IMI Security. IMI Security è un’azienda italiana per la sicurezza in mare fondata da Christian Ricci, un ex ufficiale della Guardia Costiera. L’azienda ha già lavorato in missioni anti-pirateria. È un partner con esperienza – così pensa l’armatore della Vos Hestia, la nave dell’organizzazione umanitaria “Save the Children”. Un partner di cui ci si può fidare.

Solo che Ricci non vede di buon occhio l’attività delle ONG: anche se hanno buone intenzioni i volontari finiscono per avvantaggiare gli scafisti – pensa l’ ex ufficiale – non del tutto a torto. E pensa che le ONG dovrebbero impegnarsi di più per fermare i traffici.

Dove Ricci vede un problema tecnico-giuridico, alcuni suoi colleghi fiutano un’opportunità politica. Nell’ottobre 2016 Pietro Gallo e Floriana Ballestra, due ex poliziotti inseriti nel team della IMI Security contattano i servizi segreti e poi due politici: Alessandro Di Battista del “Movimento 5 Stelle” e il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. Vogliono denunciare una cosa clamorosa: le ONG collaborano cogli scafisti. (Fonte: LINK)

Dibattista non risponde. Il segretario della Lega – riferisce Gallo in un’intervista rilasciata quest’anno al Fatto Quotidiano – è invece molto interessato alla storia dei due ex poliziotti e chiede loro di passare foto e registrazioni al suo ufficio (una circostanza confermata in un question time alla Camera dallo stesso Salvini). Fatto strano: Salvini non fa uso pubblico delle informazioni che riceve dai contractor. Almeno non subito. Sembra aspettare il momento giusto. E il momento arriverà presto. (Fonte: (LINK)

Perché una volta lanciata, la corazzata anti-ONG viaggia veloce. A ottobre 2016 parte la denuncia dei due ex poliziotti. È opportuno ricordare che a questo punto la denuncia è molto specifica, come Gallo tiene a precisare – e in sostanza è questa: quando soccorrono un barcone le ONG non fanno nulla per identificare o far arrestare gli scafisti. Omessa denuncia di reato, si chiama. Niente di più, niente di meno.

Poche settimane dopo, nel novembre 2016, un think-tank olandese vicino ad ambienti della destra anti-europeista pubblica un articolo (LINK) in cui si ipotizza per la prima volta la collusione tra le ONG e gli scafisti – l’articolo si diffonde rapidamente nei forum della destra anti-immigrazione. Quasi in contemporanea la teoria figura anche in un rapporto confidenziale dell’agenzia europea per la sicurezza delle Frontiere Frontex (LINK). La cosa resta però confidenziale per poco: passano pochi mesi e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri parla apertamente colla stampa di alcune non meglio definite irregolarità nel lavoro delle organizzazioni (Fonte: LINK).

Ma – sorpresa – è in Italia che il tamtam contro le ONG comincia a mostrare i suoi veri effetti.

Una buona spy story d’azione non è tale se non c’è un ligio funzionario che per eccesso di zelo o di ego è pronto a tutto per far regnare l’ordine. E questo è il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro.  

Zuccaro è un uomo di punta dell’antimafia con un passato sul campo nella Guardia di Finanza. Tra i colleghi ha fama di magistrato integerrimo, rigoroso, compassato.

Il suo rigore tende però a venire meno quando sul banco degli imputati ci sono degli stranieri – magari dei richiedenti asilo, come ha ricostruito il giornalista Francesco Floris. Così nel 2014 Zuccaro gestisce per esempio il caso di un 21enne siriano sospettato di terrorismo, Morad Al Ghazawi. L’intera accusa si basa su una foto di un documento trovata sul suo cellulare. Secondo Zuccaro e il suo team è un attestato dello Stato Islamico. In realtà è un meme che riguarda un cantante siriano. Ma tanto basta: Al Ghazawi si fa 16 mesi di carcere prima di essere assolto perché il fatto non sussiste. (Fonte: LINK)

Ma nonostante il piccolo inciampo il suo astro è ancora in ascesa quando, all’inizio del 2017 avvia un’indagine conoscitiva sull’attività delle ONG. E con rapidità formidabile, alla fine di marzo può già presentare gli esiti della sua inchiesta davanti alla commissione parlamentare sull’attuazione del piano Schengen. E in virtù della stima di cui gode, le sue parole hanno un peso considerevole (Fonte: LINK).

E che cosa dice, il rigoroso magistrato? Dice che non capisce come mai ci sia un “proliferare così intenso” di missioni umanitarie davanti alle coste libiche. Il pensiero che possa essere per via dei tanti morti apparentemente non lo sfiora.

Ma ci sono sì o no contatti tra ONG e scafisti? – incalzano i membri della commissione. Qui Zuccaro inizia una strana circonlocuzione che vorrei riportare letteralmente, perché mostra efficacemente quanto è sicuro dei risultati della sua inchiesta a questo punto: “Vedete, sul punto, sembra facile poterlo accertare, ma è tutt’altro che facile. Lo dico perché se qualcuno chiama prima una ONG e l’ONG interviene e poi ci si mette al sicuro chiamando anche la centrale operativa, io non saprò mai esattamente qual è stato il primo contatto, perché ovviamente non ho sotto controllo i telefoni che vengono chiamati. Quindi, è oggetto di una nostra indagine, ma non è facile riuscire ad accertarlo, eppure varrebbe la pena di farlo perché questo ci darebbe indicazione non necessariamente – attenzione – di un coinvolgimento, ma del fatto che effettivamente la possibilità di accedere facilmente, attraverso la consultazione di internet, a questi punti di contatto fa scattare un collegamento di fatto, obiettivo, tra gli organizzatori del traffico e queste ONG.”

Traduzione: non lo so. Come del resto dice esplicitamente di non sapere nemmeno come si finanzino le ONG.

Non lo sa, ma qualche idea se l’è fatta. E non vede l’ora di condividerle col mondo – magari lontano dalle sede istituzionali. Perché nelle settimane successive il ligio magistrato che parla solo sulla base di prove giudiziarie si toglie la toga e diventa un tribuno del popolo.

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E’ inarrestabile, Zuccaro. E ad ogni intervista a ogni apparizione televisiva fioriscono nuove ipotesi di lavoro, nuove teorie, nuovi scenari. Non ha più dubbi, il magistrato. Quello delle ONG è “gravissimo fenomeno criminale” paragonabile alla mafia. E all’improvviso la teoria del contatto tra ONG e scafisti – formulata molto cautamente davanti alla commissione un paio di settimane  prima – diventa certezza. (Fonte: LINK

Dice che c’è una registrazione in lingua araba che documenta una partenza concordata tra ONG e trafficanti. Strano: pochi giorni prima alla commissione aveva detto di non avere i telefoni sotto controllo. E la fantomatica registrazione non finirà mai agli atti.

Dalla prima – forse condivisibile – accusa, cioè che le ONG non collaborano a identificare gli scafisti, si passa a parlare così di giri di capitali, di trafficanti che finanziano i salvataggi e di misteriosi personaggi con valige piene di soldi che salgono di notte a bordo delle navi. Ormai siamo veramente alla spy story. Ci manca solo che parli di complotto internazionale per destabilizzare l’economia italiana.

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Come non detto.

Il metodo Zuccaro in effetti ha i suoi vantaggi. Così per esempio io potrei dire che non ho prove giudiziarie per affermarlo, però ho la certezza, che mi viene da fonti di conoscenza reale ma non utilizzabile processualmente che il Procuratore di Catania è un razzista mitomane e che dovrebbe essere rimosso dalla carica. Potrei.

All’epoca però le teorie del magistrato vengono accolte con entusiasmo bipartisan da tutto il mondo politico: dal capo della Lega Matteo Salvini fino al segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, tutti dicono una sola cosa: C’è qualcosa di molto sordido nel lavoro delle organizzazioni umanitarie. (Fonte: LINK)

Lo stesso si può dire dei media. Mentre fino all’aprile 2017 le teorie del complotto riguardanti le ONG erano limitate a forum, blog e media della destra anti-immigrazione, dal maggio di quell’anno quasi tutti gli organi di stampa parlano di “contatti sospetti”, “finanziamenti poco chiari” e di “rete criminale”.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che i bilanci delle organizzazioni sono liberamente consultabili online e che – almeno per quanto riguarda le ONG tedesche – tutti i conti sono regolarmente sottoposti al controllo del ministero delle Finanze. Oppure magari basterebbe chiedere a un’altra procura se effettivamente vi siano, come sostiene Salvini, informazioni dei certe servizi segreti su contatti tra ONG e scafisti.

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Questo è il procuratore di Siracusa Francesco Paolo Giordano, anch’egli coinvolto nell’indagine conoscitiva. Ma la sua voce, come quella dei pochi giornalisti critici che mettono in dubbio le teorie di Zuccaro, sono sommerse dall’improvviso afflato di legalità che scuote il paese.

Un afflato di legalità che arriva fino ai vertici del governo.

Non è che il governo Gentiloni finora abbia ignorato la questione. In realtà ha già lavorato parecchio per fermare i flussi migratori, ma lo ha fatto prevalentemente sull’altra sponda del Mediterraneo, in Libia. Nel febbraio del 2017 Gentiloni e il presidente del governo di accordo nazionale di Tripoli Fayez al Serraj firmano un documento di intesa (Fonte: https://openmigration.org/analisi/tutto-quello-che-ce-da-sapere-sullaccordo-italia-libia/) in cui la Libia, in cambio di una più stretta collaborazione coll’Italia e l’Europa, si impegna a fermare le partenze. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il governo libico si impegna ad arrestare e internare gli immigrati illegali in campi di prigionia – campi che un documento riservato del ministero degli Esteri tedeschi aveva definito “simili a campi di concentramento” (Fonte: LINK).

E quando i tedeschi parlano di “campi di concentramento” c’è da credergli.

Sulla questione delle ONG però il governo fino al maggio del 2017 ci va cauto. L’ondata giustizialista scatenata dalle dichiarazioni di Zuccaro è però sempre più difficile da contenere. E soprattutto c’è la destra anti-immigrazione che incombe. Lo dice senza mezzi termini il ministro degli Interni Marco Minniti all’inizio di maggio in un’intervista a Repubblica: “Il populismo – dice Minniti – vive e ingrassa della paura del Paese. E per tenere viva la paura è necessario coltivare un’ossessione”. (Fonte: LINK)

E l’ossessione di tutti al momento è una sola: la “smoking gun”, la pistola fumante. Cioè: in tutto questo carosello di supposizioni, scenari e ipotesi manca una cosa. Manca la prova concreta che le ONG sono in combutta coi trafficanti. Ma niente paura: se cerchi bene una pistola la trovi sempre. Anche se devi costruirtela da solo.

In più di sei mesi di imbarco gli agenti di IMI Security non hanno praticamente documentato niente di sospetto sulla “Vos Hestia”: niente segnali notturni agli scafisti, niente piani occulti, niente ammissioni di secondi fini. Ma c’è un’organizzazione tedesca con un’altra nave che sembra fare più al caso degli inquirenti. Si chiama “Jugend Rettet”, i giovani salvano, ed è stata fondata da un gruppo di studenti molto entusiasti e politicamente attivi che hanno raccolto fondi tra amici e familiari per comprare un vecchio peschereccio. L’entusiasmo, si sa, è come una malattia – contagioso, ma a volte pure fatale.

La nave di “Jugend Rettet”, la “Iuventa”, è particolarmente attiva e opera molto vicino al limite delle acque libiche – abbastanza da attrarre l’attenzione degli infiltrati della IMI Security. E nel giugno del 2017 i ragazzi di “Jugend Rettet” forniscono finalmente la pistola fumante che tutti stavano cercando. Durante il soccorso di diverse imbarcazioni, una barca dell’organizzazione prende a rimorchio un gommone degli scafisti – i portavoce dell’ONG dicono in seguito: per rimuoverlo dall’area di operazioni. Lo portano verso la Libia e in pratica lo riconsegnano agli scafisti. È la prova che tutti aspettavano: le ONG aiutano i traffici.

Da bordo della “Vos Hestia” gli agenti fotografano tutto. C’è n’è abbastanza per tirare su un procedimento penale (LINK).

E così si arriva alla fine di giungo del 2017. Nella nostra spy-story potremmo chiamarlo il momento della resa dei conti.

Si comincia in Germania. Ricordate la “Cap Anamur”? Ricordate le telefonate al vetriolo tra Berlino e Roma? Ecco… Nonostante organizzazioni umanitarie tedesche siano da mesi sotto tiro della magistratura italiana, a Berlino non vola una mosca. Anzi. A dare il via alla crociata giudiziaria contro le ONG è proprio una procura tedesca: il 26 giugno la procura di Dresda attiva un procedimento contro l’organizzazione “Mission Lifeline”, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. (Fonte: LINK)

E’ un fulgido esempio di giustizia profetica che farebbe molto contento lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick – quello di “Minority Report”. Perché quando partono gli avvisi di garanzia la “Mission Lifeline” non ha nemmeno una nave.

E’ suonata la carica: Appena un giorno più tardi il ministro Minniti annuncia di voler chiudere i porti alle ONG (Fonte: LINK). Nelle settimane successive poi il ministro elabora un codice di comportamento (Fonte: LINK) che le ONG sono tenute a firmare se vogliono continuare a usare i nostri porti. Il codice prevede un rigoroso controllo da parte delle autorità italiane.

Solo tre su nove ONG firmano. I giovani entusiasti di “Jugend Rettet” non sono tra questi.

E’ il momento di fare scattare la trappola: All’inizio di agosto la procura di Trapani ordina il sequestro della “Iuventa”. Ci sono “gravi indizi di contatti con i trafficanti” si legge nella motivazione. Quali? Non si sa. Ma il Procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio fa però un distinguo importante che sembra quasi un richiamo all’ordine per il suo collega Zuccaro: “La mia personale convinzione è che lo facessero per motivi umanitari” – dice Cartosio. E aggiunge: “Un collegamento stabile tra la Ong e i trafficanti libici è pura fantascienza.” (Fonte: LINK)

Ma il segnale è stato dato: le ONG sono ora ufficialmente sotto accusa.

Nonostante gli attacchi giudiziari, nonostante la campagna mediatica, nonostante la pioggia di insulti online – nonostante persino il prevedibile calo dei contributi volontari dovuto a sei mesi di attacchi martellanti… le ONG continuano a lavorare. E continuano a salvare vite.

Ma una cosa è essere sotto tiro di qualche testa di cuoio da tastiera – un conto è essere sotto il tiro di milizie armate. Specie se i proiettili li paga chi in teoria dovrebbe difenderti.

Nel luglio 2017 l’Unione Europea ha stanziato – su pressione dell’Italia – 46 milioni di euro al governo di Tripoli (Fonte: LINK). Ma è solo un acconto: in totale ci sono sul tavolo quasi 300 milioni. Una cifra considerevole. (Fonte: LINK).

E a chi vanno? Vanno in prevalenza al rafforzamento della guardia costiera. Beh… Bene, no? La guardia costiera libica può salvare i migranti e fermare i traffici. Problema risolto.

Peccato che la sedicente guardia costiera sia formata quasi interamente da miliziani, guerriglieri e trafficanti. E questi non vanno per il sottile: ad agosto la nave dell’organizzazione spagnola Pro Activa Open Arms viene minacciata dall’equipaggio di una motovedetta. Parlando via radio i presunti militari dicono: andatevene, questo adesso è il nostro territorio. E non dicono per dire: a settembre militari che si identificano come funzionari della guardia costiera sparano e assaltano la nave di “Mission Lifeline”, a novembre un’imbarcazione della guardia costiera tenta di speronare la Sea Watch.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Delle nove organizzazioni presenti in mare all’inizio dell’estate sette ritirano le navi. Il pericolo per il personale è troppo elevato. “Save the Children” chiude le operazioni. Catambrone e la sua MOAS spostano le attività nel subcontinente asiatico, dove vanno a prestare aiuto ai profughi Rohingya in fuga dalla Birmania. Apparentemente l’ex dittatura militare è un interlocutore più civile dell’Unione Europea. Höppner e la sua Sea Watch restano.

Restano. Ma non hanno più molto da fare. Perché di colpo il mare si è come svuotato. I telefoni di emergenza tacciono. Nel Canale di Sicilia ci sono solo pochi, isolati barconi.

Che cosa è successo? Magari senza l’aiuto delle ONG gli scafisti hanno chiuso davvero bottega? O magari è venuto meno il pull factor che spingeva così tante persone a rischiare la vita in mare. Alla fine allora Ricci, Zuccaro e Salvini avevano ragione, insomma.

Non proprio.

E’ successo che quelle stesse milizie che facevano soldi mettendo la gente in mare per farla venire in Italia hanno scoperto che si possono fare ancora più soldi tenendola lì quella gente. Coi soldi dell’Italia e dell’Unione Europea il governo di Tripoli paga i miliziani per bloccare il traffico che loro stessi gestivano. Da scafisti sono diventati carcerieri – come conferma un rapporto delle Nazioni Unite (Fonte: LINK).

Chi cerca di scappare – magari a bordo di imbarcazioni di fortuna – adesso viene catturato, picchiato duramente e poi sbattuto in uno dei campi di prigionia. Ci sono video che lo dimostrano. (Fonte: LINK)

La nostra spy story potrebbe finire qui, con un’immagine della spiaggia di Sabratha, a Est di Tripoli, dove ogni mattina si radunavano centinaia di migranti per salire sui gommoni. Adesso la spiaggia è deserta. C’è solo il rumore del mare. E le grida dei gabbiani. (Fonte: LINK)

Beh, almeno i migranti non rischiano più la vita in mare.

Non proprio.

Se ci si sposta di qualche chilometro dalla spiaggia, infatti, ci si imbatte in una grossa struttura recintata con filo spinato. Dentro ci sono centinaia di persone – uomini, donne e bambini. Vengono dal Sudan, dall’Eritrea, dalla Somalia. Sono magri, coperti di lividi ed escoriazioni. Le donne si tengono in disparte.

Ogni tanto arrivano dei libici armati che caricano gli uomini su un camion colpendoli con bastoni elettrici – come bestiame. Altre volte vengono a prendere una o più donne per portarle nelle baracche delle guardie.

Nel novembre 2017 il Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’ad Al Hussein, dopo aver visitato la Libia, parla di un “oltraggio all’umanità” (Fonte: LINK): i detenuti sono malati e deperiti. Non ci sono gabinetti. Torture e stupri sono all’ordine del giorno.

E da allora la situazione è solo peggiorata: la cosiddetta guardia costiera libica intercetta al momento circa l’85 per cento di coloro che cercano di scappare dal paese. I campi di detenzione sono stracolmi: non si sa quanti detenuti siano morti di stenti e malattie (Fonte: LINK).

E tutto questo, val la pena ripeterlo, è pagato con soldi nostri.

Ma almeno i loschi traffici delle ONG sono venuti alla luce.

Non proprio.

Cinque inchieste giudiziarie con più di 40 di avvisi di garanzia si sono susseguite dopo il sequestro della “Iuventa”: è stata perquisita la “Vos Hestia”, sequestrata la “Golfo Azzurro” di Pro Activa Open Arms, si è indagato su presunte attività illecite di Sea Watch e – pochi mesi fa – il sempre solerte Zuccaro ha avviato un’indagine contro l’organizzazione SOS Mediterranée per smaltimento illecito di rifiuti. Le inchieste hanno coinvolto quattro procure e decine di collaboratori.

Il risultato? Nessun processo, nessuna condanna. Niente. Un’inchiesta fantasma.

Ma almeno, come diceva Minniti, la linea dura è servita a fermare l’avanzata dei populisti.

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E ora… Ora che il nuovo governo giallo-verde ha di fatto chiuso i porti a chi salva persone in mare, ora che le poche navi umanitarie rimaste vagano come vascelli fantasma nel Mediterraneo – bussando a ogni porta come la bambina di Hiroshima cantata da Hikmet – ora che le partenze si sono ridotte drasticamente ma di mille persone che partono dieci in più ne crepano rispetto agli anni scorsi, ora che in Libia i lager traboccano di persone e il mercato degli schiavi va alla grande… Ora ci si immaginerebbe che almeno una persona – chessò un magistrato, un politico, un giornalista – dicesse: mi dispiace. È stato tutto un errore.

Uno, per la verità, c’è. È Pietro Gallo, l’ex poliziotto diventato esperto di sicurezza diventato informatore: “Quando sento che 170 persone sono morte, perché non c’era nessuno a soccorrerle – dice al Fatto Quotidiano – io oggi mi sento responsabile. In 8 mesi di navigazione ho contribuito a salvare 14mila persone. So di cosa stiamo parlando. Il mio obiettivo non era questo”.

È qualcosa.

E anche se la pensate diversamente, se anche pensate che le ONG abbiano agito fuori dalla legge, anche se credete che non possiamo davvero aprire le braccia a tutti quelli che arrivano per mare, anche se dite “Ma quali donne e bambini? Quali rifugiati? Sono tutti ragazzi che vengono qua per spacciare e rubare”… almeno sarete d’accordo con me che non possiamo guardare dall’altra parte quando ci sono 15.000 cadaveri di bambini in fondo al mare in cui ci tuffiamo d’estate. È una questione di civiltà.

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Leviatano (parte prima), i testi del secondo episodio

Immaginate di essere su una barca. È una chiara mattina d’ottobre. Il sole scintilla sul mare. Un gabbiano passa a volo radente sopra le onde. La barca – un peschereccio lungo 20 metri e largo 6-7 – beccheggia dolcemente. Bello, vero? Ora immaginate che con voi in questi 20 per 7 metri siano stipate altre 480 persone.

Non sapete quanto dista la terra. Intorno c’è solo mare. Un mare che si gonfia sempre di più ad ogni raffica di libeccio.

E la barca sta prendendo acqua. Prende acqua perché nello scafo ci sono dei buchi di proiettile. A sparare è stato l’equipaggio di una motovedetta libica.

Ma i libici ora non ci sono più. C’è solo il mare. E la barca che affonda lentamente con 480 persone a bordo. Tra loro più di 100 bambini.

Sono famiglie di siriani in fuga dalla guerra. Famiglie di classe media, che fino a pochi mesi prima abitavano in belle case con giardino e guidavano automobili tedesche: professionisti, medici, imprenditori. Erano arrivati in Libia regolarmente, coll’aereo, perché in Libia all’epoca per i siriani non serviva un visto. E quando si scappa dalle bombe si va per le spicce.

Solo che in Libia avevano trovato un’altra guerra civile. E allora avevano preso gli ultimi soldi che avevano e li avevano dati a un tunisino che prometteva di portare le famiglie al sicuro – in Italia.

L’Italia a mezzogiorno di questa chiara mattina di ottobre non è nemmeno tanto lontana. Poco più di 100 chilometri. La distanza tra Firenze e Bologna. Ma la barca continua ad affondare. È partita una chiamata di soccorso. Ha risposto la centrale della Guardia Costiera. Va tutto bene – dicono dalle centrale -– i soccorsi stanno arrivando. Le famiglie a bordo tirano un sospiro di sollievo.

Il tempo passa. La barca si inabissa poco alla volta. Il mare intorno rimane vuoto.

Partono altre chiamate. “Stiamo morendo. Perfavore aiutateci”, dicono da bordo. Ancora rassicurazioni. E ancora non si vede nessuno. C’è una nave militare italiana a poche miglia. Ma non viene allertata.

Cinque ore. Passano cinque ore, in cui il comando di squadra navale italiano cerca di scaricare il recupero dei naufragi sulla Marina maltese. (Ascolta l’audio della Guardai Costiera)

La barca affonda e il mare si ingrossa. L’orizzonte è sempre deserto. Inizia a crescere la paura. I passeggeri si agitano. All’improvviso, alle cinque di pomeriggio, la barca si rovescia. 480 persone finiscono in mare.

I soccorsi italiani stanno finalmente arrivando, ma è troppo tardi.

I genitori cercano di tenere vicini i bambini, ma è difficile. I vestiti appesantiscono i movimenti. Le braccia annaspano. Le gambe diventano pesanti. La stretta intorno a quei piccoli corpi che piangono e gridano si allenta. Scivolano via tra le braccia dei genitori. Scivolano e vanno giù. Giù.

268 persone sono annegate. 60 di loro erano bambini.

“Il naufragio dei bambini”, come è stato chiamato poi, non è la prima strage che si consuma sotto gli occhi delle autorità marittime nel Mediterraneo Centrale, ma è sicuramente una delle più atroci. Per chi ha figli – ma anche per chi non li ha – è difficile immaginare una storia dell’orrore più terrificante di questa.

Eppure i naufragi nel Mediterraneo sono diventati quasi un rumore di fondo nel clamore mediatico che circonda la questione immigrazione – un basso continuo ricorrente e inevitabile come le onde del mare.

Nessuno sa di preciso quante persone sono morte nel braccio di mare che separa l’Europa dall’Africa. Contando solo le vittime accertate dal 2000 a oggi si arriva intorno alle 50.000 persone – una città grande come Pordenone. Ma questi sono numeri. Il dolore, la paura, la dilaniante incertezza di non sapere che cosa sia successo ai tuoi cari – quelli non li puoi misurare.

Persino un naufragio con più di 100 morti come quello avvenuto nel gennaio 2019 davanti alle coste libiche non è più fonte di sensazione – e viene dilavato rapidamente da nuove polemiche sul blocco delle frontiere, sulle responsabilità politiche e legali, mentre la città in fondo al mare accoglie sempre più cittadini.

E’ cinismo? Abitudine? O c’è dell’altro?

E’ vero: E’ da quasi vent’anni che le notizie di barconi alla deriva riempiono periodicamente le cronache. Ma l’atteggiamento della politica, dei media – e soprattutto il nostro di comuni cittadini – è cambiato molto nell’arco di pochi anni.

Per capire che cosa è successo, forse è il caso di tornare colla memoria a quei giorni del 2013.

Il “naufragio dei bambini” è accaduto in un mese nero nella già drammatica storia dei naufragi del Mediterraneo: Una settimana prima, il 3 ottobre, un altro peschereccio con 570 persone a bordo era andato a picco a poca distanza da Lampedusa: 368 morti.

“L’ecatombe di Lampedusa”, “Strage di migranti, l’Italia in lutto”, “La strage della vergogna” titolano i giornali (LINK). E anche i commenti agli articoli sono pieni di dolore e rabbia per la tragedia avvenuta. E la politica – da destra a sinistra – non è da meno.

Questo è l’allora ministro degli Interni Angelino Alfano, già Forza Italia, ora Nuovo Centrodestra – non un comunista buonista, ma un uomo di destra – che riferisce alla Camera sul naufragio. Si dice scosso e addolorato. E proclama il lutto nazionale. Una tragedia del genere, dice Alfano, non deve più ripetersi. E, per una volta, non sono parole al vento: Di lì a poco l’Italia lancerà la Missione navale Mare Nostrum – la più grande missione di monitoraggio e soccorso nel Mediterraneo. In un anno di attività la missione salverà la vita a 140.000 persone.

Ora facciamo un salto di un anno e mezzo. Mare Nostrum non c’è più. L’Unione Europea non ha voluto farsi carico del rifinanziamento della missione. Il ministro degli Interni tedesco dice che la missione è diventata un ponte tra l’Africa e l’Europa. Un “pull factor”, un “fattore di attrazione” per i disperati. Sta arrivando troppa gente. Il ponte deve saltare.

E il ponte salta.

Ma la gente continua ad arrivare – anzi… gli sbarchi aumentano. Alla faccia del “pull factor”.

E’ il 18 aprile del 2015. Un’altra barca, un altro peschereccio di 20 metri è in rotta dalla Libia verso l’Italia. A bordo ci sono più di mille persone. Verso sera la Guardia Costiera riceve una richiesta di aiuto. C’è una nave mercantile nelle vicinanze che fa rotta verso le coordinate del barcone. I soccorsi arrivano, ma l’operazione di salvataggio prende una piega inattesa: per un errore di manovra il barcone si avvicina troppo alla nave. I passeggeri, nell’ansia di salire a bordo, si spostano tutti da un lato. Il peschereccio si rovescia si rovescia e cola a picco. L’aspetto atroce di questa vicenda è che, apparentemente molti passeggeri erano chiusi a chiave nella stiva.

Tre anni ci sono voluti per recuperare e riconoscere le vittime. Dei passeggeri non si è salvato quasi nessuno.

E una delle prime voci che commentano questa immensa tragedia – forse la più ingente mai avvenuta nella storia recente nel Mediterraneo – è una voce nuova che si è da poco affacciata sulla scena politica. Questa:

AUDIO (Salvini)

Questo è il nuovo segretario della Lega Nord e futuro ministro dell’Interno Matteo Salvini intervistato a poche ore dal naufragio. Niente lutto, niente sentimentalismi: Salvini va al sodo. Vuole un blocco navale militare nel mediterraneo.

Colla prospettiva di oggi qui il giovane segretario appare quasi come un moderato. Ma c’è qualcosa di nuovo nell’aria. D’accordo, Salvini non è il primo nel suo partito a chiedere misure drastiche contro gli sbarchi – nel 2011 il deputato della Lega Francesco Speroni aveva detto che bisognava “sparare ai barconi”. Ma è la prima volta che, di fronte a una tragedia umanitaria, un segretario di partito ci va giù così pesante. E il suo partito in quel momento è in vertiginosa ascesa.

E’ giovane, Salvini, ma è già un politico esperto. Perché ha il polso della situazione. Nei commenti agli articoli sul naufragio e nei social media la discussione infatti ha assunto un tono molto diverso rispetto a quello di un anno e mezzo prima. Sì, ci sono ancora i messaggi di cordoglio e le accuse al governo. Ma ci sono anche altri messaggi.

“Non ci credo… Troppo bello per essere vero”
“Cazzo finalmente qualcuno muoreeee!!!”
“Affondasse tutta l’Africa”
“Dai, se non sono 700 mi va bene anche 699”
“Godoooooo, devono affogare tutti questi invasori”
“Peccato così pochi”
“700 parassiti in meno da mantenere, affondasse anche il Parlamento con tutto il governo avremmo fatto bingo”.

(Fonte)

Troll, mitomani, dirà qualcuno. Sono voci isolate, è vero. Ma è successo qualcosa in quell’anno e mezzo. E’ successo che per tanti quelle persone intrappolate nella stiva del peschereccio andato a fondo il 18 aprile e anche i bambini dell’ottobre del 2013 e le altre vittime di naufragi nel Mediterraneo sono diventati i personaggi di un’altra, diversa storia dell’orrore – una storia in cui, paradossalmente, i mostri sono loro: i naufraghi.

Come è potuto avvenire questo rovesciamento? La spiegazione è un po’ complicata. Cerco di farla breve anche se in realtà sono pezzi di un mosaico molto più grande.

Semplificando, possiamo ridurre la spiegazione a tre fattori.

Il primo: nell’anno e mezzo che separa le due stragi in mare il numero di persone in arrivo sulle coste europee è aumentato significativamente. In Italia è quasi triplicato – da 50.000 nel 2013 a 140.000 nel 2014. Le ragioni sono molteplici. Da un lato, come abbiamo visto, la Libia è diventato un rifugio per decine di migliaia di siriani in fuga dalla guerra. Solo che proprio nel 2014 il fragile equilibrio politico che regge il paese dalla caduta del clan Gheddafi va in pezzi e anche qui comincia una sanguinosa guerra civile.

I siriani hanno soldi – e nessuna voglia di restare nel paese. I libici lo sanno e sono pronti ad offrire loro una via d’uscita: il mare. Il business degli scafi esisteva già, ma è coi soldi dei siriani che inizia a diventare una struttura veramente organizzata. E ad approfittarne sono le milizie armate che si contendono il controllo del territorio – e soprattutto quello dei porti. Le milizie hanno però un altra fonte di finanziamento: gli immigrati africani. Giunti nel paese da tutta l’Africa subsahariana per lavorare nei cantieri edili, i “neri” nella guerra civile diventano merce di scambio: vengono presi in ostaggio o venduti al mercato degli schiavi. E se vogliono scappare dall’inferno c’è un’unica strada: il mare. Il passaggio, naturalmente, lo offrono loro – le milizie. E così si crea un circolo vizioso che di fatto dura ancora oggi. (Fonte: IOM)

Sì vabbeh, ma allora è giusto che gli italiani siano preoccupati. Mica possiamo prenderli tutti noi… Eh ho, perché degli immigrati sbarcati in Italia solo pochissimi restano. Nelle strutture di accoglienza c’è posto per poche migliaia di persone. Gli altri vivono per strada. E allora i più vanno verso Nord: Svizzera, Germania, Svezia. E nel 2014 la polizia smette quasi completamente di registrare i nuovi arrivati. (FONTE)

Ma vallo a spiegare a quelli che postano foto del concerto dei Pink Floyd in Piazza San Marco scambiandolo per un porto libico assediato da africani che vogliono venire in Italia (VIDEO). E questo ci porta al fattore numero due.

Tra il 2013 e il 2015 il dibattito politico si è spostato progressivamente su una nuova piattaforma: i social network. Secondo uno studio dell’istituto di ricerca americano Pew Center tra il 2010 e il 2014 il numero di persone che usano i social come principale fonte di informazione sui dibattiti politici è raddoppiato.

A differenza dei media tradizionali come giornali e TV i social sono una pubblica piazza in cui ognuno può dire quello che vuole. Il che è pure una bella cosa, se non fosse che – appunto – ognuno può dire quello che vuole, non importa se vero o no. Ed è proprio nel 2015 che la politica scopre un nuovo strumento di propaganda: le “fake news” virali. Sì, è vero, Internet è sempre stato pieno di bufale – dai rettiliani al pianeta Niribu, dagli Illuminati alle scie chimiche. Ma è dalle campagne elettorali sul Brexit in Gran Bretagna e dalle presidenziali USA che i social cominciano a riempirsi di foto taroccate, video sfocati e tanti, tantissimi messaggi – tutti, naturalmente, in maiuscolo – che evocano scenari catastrofici. E una porzione sostanziale di questi messaggi riguarda proprio loro, gli immigrati.

Ci sono le foto di uomini barbuti che sventolano bandiere dell’ISIS spacciate per rifugiati che attaccano la polizia in vari paesi d’Europa – e invece sono salafisti tedeschi a una manifestazione nel 2012, quando lo Stato Islamico era ancora un piccolo nucleo attivo solo in Iraq. C’è la foto della nave con migliaia di persone a bordo – e molte di più che cercano di salire – collocata di volta in volta in Libia, Egitto e Turchia – mentre in realtà ritrae una nave albanese diretta in Italia nel 1991. E ancora un video con persone di aspetto mediorientale che sembrano prendersela con gente sta portando loro pacchi di viveri – una protesta contro cibo non-halal, secondo alcuni; in realtà un picchetto di protesta contro la violenza della polizia alla frontiera serbo-macedone. E tanti, tantissimi altri.

Ma non sono solo i social media: Se guardiamo con quali parole i giornali hanno commentato i naufragi del 2013 e poi le confrontiamo colle parole usate per descrivere i fatti dell’aprile 2015 vediamo che nel primo caso prevalgono espressioni emotivamente forti – tragedia, bambini, cadaveri – nel secondo caso si parla invece di più di problemi: di politica, di Libia, di migranti e clandestini. Alla pietà subentra l’ansia.

E forse non è un caso che proprio in questo momento la questione immigrazione domini i pensieri dei cittadini europei: secondo i sondaggi condotti dall’Unione Europea – il cosiddetto Eurobarometro – tra il 2014 e la primavera del 2015 l’immigrazione è diventata – di botto – la principale preoccupazione dei cittadini europei. E questo ancora prima che arrivi la grande carovana di profughi di guerra siriani provenienti dalla Turchia.

E mentre la politica tradizionale fatica a stare al passo con questi sviluppi c’è chi la nuova onda la cavalca da professionista. E la alimenta.

Ed ecco il terzo, decisivo fattore: in molti paesi d’Europa forze della destra populista e radicale stanno avanzando nei sondaggi. In Francia, Olanda e Austria sono date come primo partito. Tutti questi partiti – dall’FPÖ austriaco al Front National francese, dallo UKIP britannico al Partito della Libertà olandese – hanno una cosa in comune: vogliono chiudere le porte all’immigrazione. E anche in Europa orientale – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – la questione immigrazione diventa il cardine del dibattito politico.

Poche settimane dopo il naufragio dell’aprile 2015 un altro personaggio appare sull’orizzonte politico del Pianeta. E lo fa con queste parole:

“Quando il Messico ci manda la sua gente, non manda la gente migliore. Non manda la gente come voi. CI manda gente con un sacco di problemi e ci portano i loro problemi. Ci portano la droga. Ci portano la criminalità. Sono stupratori. Qualcuno, forse, è una brava persona”, dice Donald Trump nel discorso in cui inaugura la sua campagna elettorale.

Qualcuno è una brava persona – forse. Più chiari di così si muore.

In nessuno di questi paesi c’è un’emergenza immigrazione. E allora perché parlano tutti così tanto di immigrati – e con così grande successo?

Perché è un tema che più se ne parla, più divide – e la nuova destra sovranista lo sa bene. C’è uno studio dell’università di Düsseldorf che ha dimostrato che più il dibattito pubblico gira intorno alla questione immigrazione, e quindi più i media ne parlano, più una parte della popolazione tende ad assumere posizioni radicali – indipendentemente da quanti immigrati ci sono veramente. Repubblica Ceca e Polonia hanno rifiutato di sottoscrivere il patto ONU sui migranti per timore di “ondate migratorie incontrollate”. A quanto ammonta la quota di immigrati nei due paesi? 1,5 per cento delle popolazione in Repubblica Ceca e 0,04 per cento in Polonia. (Fonte)

Tutti, fino a prova contraria, siamo liberi pensatori. Ma quello che diciamo, pensiamo e sentiamo non è mai avulso da ciò che ci circonda.

Una caratteristica della natura umana è che siamo portati a prevenire i rischi prima che si concretizzino. E comunichiamo le nostre congetture – spesso in forma di storie. Per dire: Chi va per mare sa che è pericoloso. Ma dire: “occhio, qui si rischia la vita” non basta. E allora inventa storie di mostri marini, di balene bianche e leviatani. In altre parole: mentre un animale scappa quando vede avvicinarsi un predatore, l’uomo disegna una mappa e dice – come facevano gli antichi geografi – “occhio non andare qui che ci sono i draghi”.

Come nel caso dei mostri marini, a volte le storie che ci raccontiamo per prevenire i pericoli non sono molto accurate. Anche se le storie sono inventate, gli effetti che hanno sulle persone però sono molto molto reali. E i mostri che queste storie evocano sono sicuramente spaventosi – ma non sono i mostri che emergono dagli abissi del mare. Sono i mostri che dormono negli abissi della natura umana. E, a volte, questi mostri, si svegliano.

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L’invasione degli ultracorpi, i testi del primo epidosio

Ferragosto 2015. Ponte di Legno, vicino Brescia. È in corso la tradizionale Festa della Lega Nord. È agosto ma quassù fa un po’ fresco. Il cielo è coperto. L’atmosfera però è allegra. C’è musica: canzoni dialettali, cori della montagna. Nell’aria c’è l’odore della polenta e della carne alla brace.

L’ospite d’onore è, come di consueto, il segretario del Partito Matteo Salvini.

In questo Ferragosto un po’ nuvoloso il segretario ha tutti i motivi per essere contento: in un anno il suo partito ha dimenticato il magro 6,2 per cento preso alle elezioni europee del maggio 2014 e viaggia nei sondaggi a quota 15 per cento – meglio di Forza Italia. E il merito è tutto suo, di Salvini, che ha preso in mano un partito in pezzi, logorato gli scandali che hanno travolto il clan del Senatùr Umberto Bossi, e lo ha trasformato in uno degli schieramenti di punta della nuova onda nazionalista e anti-immigrazionista europea.

Insieme ai leader della destra radicale olandese, austriaca e francese il giovane segretario ha appena fondato una coalizione anti-europeista. Hanno idee diverse, gli amici di Salvini (leggi L’Espresso), ma su una cosa sono d’accordo: il male dell’Europa si chiama immigrazione.

E di immigrazione parla volentieri Salvini coi giornalisti accorsi a Ponte di Legno. E, nonostante il clima di festa, lo fa colla faccia scura e il tono di chi annuncia la catastrofe.

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E’ in corso un genocidio, dice Salvini. Un genocidio, che vuol dire quando un’intera popolazione viene sistematicamente massacrata, sterminata – come gli ebrei durante il nazismo o gli armeni sotto l’impero ottomano o gli herero e i nama per mano dei colonizzatori tedeschi in Namibia. E’ una parola terrificante. Ci si aspetterebbe che i giornalisti intervengano, chiedano spiegazioni: dove sono questi milioni di italiani trucidati – e da chi?

E invece no. E’ la retorica colorita del dinamico leader leghista. Una battuta. Passi.

Ma non è una battuta a caso. È la culminazione di una specie di storia a puntate – una storia a metà tra il thriller fantascientifico e il giallo. Ma per essere un giallo decente manca qualcosa: c’è una vittima (gli italiani). Mancano però il movente, l’arma del delitto – e un colpevole.

Giallo a puntate, dicevo: già alcuni mesi prima ai microfoni di Radio Padania Salvini aveva parlato di “pulizia etnica”.

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Nota‚ bene: Qui Salvini parla ancora separatamente di padani e italiani. Del resto all’epoca il suo partito si chiamava ancora “Lega Nord”.

La storia che Salvini racconta è così: non è vero che gli immigrati che arrivano in Europa scappano dalla miseria, dalla fame o dalla guerra – o che al limite vogliono semplicemente un futuro migliore. No. Vengono da noi con un piano di invasione, si diffondono, si mescolano a noi, si moltiplicano e, alla fine, ci sostituiscono.

Se, messa così, la storia suona familiare è perché è la trama di uno stranoto film di fantascienza degli anni ‘50: L’Invasione degli Ultracorpi.

Però in realtà è un mito molto antico, che probabilmente affonda le sue radici nell’alba del genere umano – quando l’homo sapiens portò all’estinzione il suo diretto contendente per la sopravvivenza, l’uomo di Neanderthal, e – per così dire – lo sostituì nella catena evolutiva (leggi QUI).

Un mito potente. E Salvini lo sa. Nei mesi successivi comincia addirittura a parlare specificamente di “sostituzione etnica” – un ritornello che ripeterà anche negli anni a venire

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L’idea, ovviamente, non è sua. Nella sua versione più moderna il mito della “sostituzione etnica” viene dalla penna di un intellettuale francese molto amato dalla destra, Renaud Camus. In un saggio del 2011 chiamato, guardacaso, “Le Grand Remplacement”, ovvero sia “La Grande sostituzione” Camus spiega: “E’ molto semplice: qui c’è un popolo e poi d’un tratto, nell’arco di una generazione, ecco apparire un altro popolo – o più popoli diversi.”  (leggi Le Monde)

Camus non ha proprio tutti i torti. In effetti nella storia vi sono stati genocidi che hanno portato a una vera e propria sostituzione etnica – di regola quando una popolazione più tecnologicamente avanzata occupava il territorio di una popolazione più primitiva – come è avvenuto nel Continente Americano nel XVI e XVII secolo, ad esempio. E in Australia nel XVIII e XIX. Noterete una costante: a perpetrare questi genocidi sono stati Spagnoli, Portoghesi, Inglesi e tedeschi – insomma, europei bianchi.

Questo aspetto però per Camus è marginale. No, gli europei semmai sono le vittime della grande sostituzione – un’oscura, inquietante profezia.

Il libro di Camus continua ad avere grande successo: non a caso, “The Great replacement” è anche il titolo del manifesto scritto dal terrorista razzista che nel marzo del 2019 ha ucciso 50 persone in due moschee di Christchurch in Nuova Zelanda. E anche quello spietato terrorista, guarda un po’, parla di “genocidio” e di “sostituzione etnica”.

Ma Camus, il Nostradamus della nuova destra, sta riciclando idee che circolano già da tempo. Alcuni fanno risalire il mito della sostituzione etnica in Francia a un romanzo scritto negli anni ‘70, “Le Camp des Saints”, di Jean Raspail – in cui un milione di rifugiati indiani approda in Costa Azzurra e, in sostanza, prende possesso della Francia.

Un arcano mito nato da un romanzo che diventa la base per una dottrina politica? Suona familiare? Eh sì: è la stessa storia dei “Protocolli dei Savi di Sion”, il famoso falso storico che è considerato il fondamento dell’antisemitismo moderno. La storia dei Protocolli è lunga e complessa e merita un approfondimento a sé. In breve: i Protocolli illustrano un piano di dominazione mondiale gestito da un’occulta rete di potenti religiosi ebrei. L’aspetto interessante è che già negli anni ‘20 si sapeva che i Protocolli erano una storia, un falso, una bufala, ma questo non ha impedito al Terzo Reich di usarli come una delle giustificazioni per l’Olocausto.

I Protocolli però hanno qualcosa in più, che la teoria della “sostituzione etnica” di Camus non ha. La sostituzione appare quasi come un fenomeno naturale – un prodotto dell’evoluzione demografica. Manca un piano, manca un’intenzione, una cabala. E manca un nemico.

Ed ecco il piano Kalergi.

Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi sarebbe probabilmente rimasto un nome noto soltanto agli storici della modernità. L’intellettuale austro-giapponese è sicuramente un personaggio molto interessante. Pacifista e cosmopolita, Kalergi crede fortemente nella necessità di un’ Unione di Stati europei per garantire la pace e la stabilità nel Vecchio Continente – un’opinione abbastanza impopolare nel periodo tra le due Guerre. Fonda per questo l’Unione Paneuropea, un movimento a cui hanno aderito nel tempo personaggi del calibro di Thomas Mann e Albert Einstein.

Ma non è per il suo pacifismo o il suo europeismo che Kalergi è improvvisamente diventato l’arcinemico dell’estrema destra europea. No. E’ grazie a un neonazista, negazionista e terrorista austriaco che si chiama Gerd Honsik.

Da giovane Honsik odiava l’Italia e tirava bombe incendiarie contro l’ambasciata italiana a Vienna. Poi cogli anni si è calmato e ha cominciato a scrivere libri. Libri dai titoli promettenti, come ad esempio “Assoluzione per Hitler” e a organizzare conferenze di gente che non crede all’Olocausto – una di queste in Iran.

Tra un processo per incitazione all’odio razziale e l’altro Honsik trova il tempo di leggere gli scritti di Kalergi e si imbatte in un passaggio che lo fa sobbalzare. Nel quarto capitolo del suo libro del 1925 “Idealismo Pratico” Kalergi, figlio di padre austriaco e madre giapponese, tesse le lodi della mescolanza tra razze diverse. E dice che, mentre in campagna le persone di un villaggio tendono a praticare l’endogamia, cioé ad accoppiarsi tra loro, in città c’è una maggiore mescolanza di popoli, razze e culture. Questo fa dell’uomo di campagna un uomo di carattere forte ma di spirito debole. L’uomo di città invece è intellettualmente più elevato, ma manca di carattere. Fin qui tutto bene.

Kalergi poi pronostica: “L’uomo del futuro sarà un Mischling, cioé un incrocio, un meticcio. E le razze e le caste di oggi scompariranno grazie al superamento dei limiti di spazio, di tempo e di pregiudizio.”

Eccolo lì: il piano segreto. L’Unione Europea – dice l’ex terrorista Honsik nel suo libro “Un razzismo legalizzato” – erede della Paneuropa di Kalergi vuole creare un mondo di meticci, deboli di carattere e per questo facili da soggiogare.

I pezzi del puzzle piano piano vanno a posto: c’è un movente (la sostituzione etnica), un colpevole (l’Unione Europea e i suoi sostenitori) e un’arma del delitto (l’immigrazione).

Ma ancora manca una cosa per rendere il Piano Kalergi un degno erede dei Protocolli dei Savi di Sion. Per quanto si voglia dare credito a Honsik, il Conte Kalergi è obiettivamente una nota a pié pagina della storia contemporanea. E poi diciamocelo: “Piano Kalergi” suona come uno strumento musicale.

Manca un mandante, un nemico come si deve – come lo erano i potenti ebrei dei Protocolli. Ma niente paura: un ebreo a cui dare la colpa di tutto si trova sempre.

https://www.youtube.com/watch?v=69lfNSOzXH4

Capitalista spietato per gli uni, comunista per gli altri. Nemico della democrazia e messia liberal-democratico. Sporco ebreo e feroce antisemita. Del finanziere americano di origini ungheresi George Soros si è detto veramente tutto e il contrario di tutto.

Su di lui circolano un’infinità di storie – e non da oggi. Già nel ‘95 il presidente slovacco gli ha imputato di aver ordito un colpo di stato ai suoi danni. Nel ‘97 il primo ministro malese lo ha accusato di essere  a capo di un complotto ebraico per destabilizzare il sud-est asiatico.

Alcune di queste storie hanno dell’incredibile: Nel 2016 la televisione di Stato rumena ha detto di avere le prove che le proteste anti-corruzione nel paese erano finanziate da Soros – e, come prova, ha pubblicato il tariffario per i manifestanti: 24 dollari per un adulto, 12 dollari per un bambino e 7 dollari e 20 per un cane (leggi QUI). Scoop: Il miliardario Soros getta letteralmente i soldi in pasto ai cani.

Ma perché proprio Soros?

Perché George Soros, nato György Schwartz a Budapest da famiglia ebrea non-osservante nel 1930, è un nemico trasversale – che possono odiare tutti, di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, religiosi e atei.

Per cominciare è ebreo e il suo nome ha sostituito in molte teorie antisemite del complotto quello più famoso dei Rothschild – i banchieri che incarnano da vari secoli lo stereotipo degli occulti Signori del Mondo. Ma è un ebreo sui generis, molto critico verso la destra sionista, tanto da essere stato accusato di antisemitismo – nientemeno che dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Poi è uno speculatore che ha fatto soldi alimentando alcune delle grandi crisi finanziarie degli anni ‘90 – puntando, tra le altre cose, sulla svalutazione della lira nel 1992. E non è che queste cose servano a farsi degli amici.

Ma c’è una ragione ulteriore per la quale Soros è al momento un bersaglio di tutta la destra nazionalista, sovranista e populista. Donald Trump lo accusa di pianificare un’invasione degli Stati Uniti; il presidente Viktor Orban ha tappezzato l’Ungheria di poster colla sua faccia è la scritta “Facciamogli passare la voglia di ridere”; Vladimir Putin ha messo al bando tutte le sue attività in Russia; e il presidente filippino Rodrigo Duterte, giusto per non passare da moderato, ha direttamente piazzato una taglia sulla sua testa.

E non è che ci si fermi alle parole: nell’ottobre 2018 l’FBI ha trovato un pacco bomba davanti alla casa del finanziere 90enne.

Ma perché tanta foga? Perché tanto astio? Perché Soros non è un finanziere qualsiasi. A voler forzare la metafora, Soros è un po’ come Batman: di giorno magnate della finanza, di notte attivista che gioca secondo le sue regole. Solo che il suo mentore non è Liam Neeson ma un filosofo inglese: Karl Popper.

Soros ha conosciuto Popper quando studiava filosofia alla London School of Economics and Political Science. Ed è rimasto affascinato da quella che Popper alla fine delle Seconda Guerra Mondiale chiama la teoria della “Open Society”, la “società aperta”. Dalle ceneri dell’Europa postbellica, Popper si augurava, può emergere una nuova società – tollerante, plurale, ispirata agli ideali di democrazia liberale – più robusta contro l’avanzata del totalitarismo.

E la passione per la filosofia politica non abbandona Soros nemmeno quando comincia a fare successo nell’alta finanza. Tra un affare e l’altro scrive decine di libri e, poco prima della caduta del Muro di Berlino, dà vita a una fondazione ispirata ai valori di Popper in Europa orientale. Questa fondazione diventerà poi la “Open Society Foundations”.

Oggi la fondazione di Soros è attiva in più di 100 paesi e finanzia progetti che vanno dall’educazione democratica ai diritti umani fino all’integrazione degli immigrati e al razzismo. E lo fa – guardacaso – in molti paesi che sono diventati un campo di battaglia delle armate sovraniste: l’Ucraina, l’Ungheria, la Germania, l’Italia, gli Stati Uniti.  

A questo punto devo aprire una parentesi personale. Io lavoro per un progetto in Germania che è co-finanziato dalla “Open Society Foundations” di Soros. Aaah – dite giustamente – è chiaro che lo difendi: ti paga.

Beh… Allora facciamoci dire il perché del suo successo da uno dei suoi più feroci critici: “Soros è odiato perché è efficace”, lo dice Steve Bannon, l’ex consigliere per la sicurezza di Donald Trump e ideologo della nuova destra sovranista globale. E uno dei libri più citati da Bannon, guarda un po’ è le Camps des Saints di Jean Raspail. E così il cerchio si chiude.

E allora, ecco l’ultima puntata del giallo, l’ultimo capitolo della nostra storia: il “piano Kalergi” diventa il “piano Soros”. Chi promuove l’abolizione di tutte le frontiere? Soros! Chi organizza l’invasione dell’Occidente? Soros! Chi finanzia le ONG che salvano i naufraghi nel Mediterraneo? Soros Soros Soros! E poi lascia stare che nessuna delle ONG è finanziata dalla Open Society Foundations. Come si dice: è il pensiero che conta.

Ma il “Piano Soros” è molto di più: il delitto perfetto, un piano-matrioska in cui infilare di tutto: dall’invasione migratoria alla liberalizzazione delle droghe fino alla distruzione della famiglia tradizionale. A te la parola, Matteo:

Le storie, i racconti, sono armi potenti. Per tornare all’homo sapiens: secondo gli antropologi una delle caratteristiche essenziali che gli hanno permesso di affermarsi a danno dei suoi diretti concorrenti è che l’homo sapiens era l’unica specie tra tutte quelle del genere homo, con una mitologia. Cioé non sapeva solo trasmettere esperienze e osservazioni – cosa che sanno fare anche altri primati – ma sapeva creare un intero universo e condividerlo con altri – e in questo modo sviluppare progetti, stringere legami e mettere insieme altri individui che credevano agli stessi miti, alle stesse storie.

Le storie sono armi potenti perché ci permettono di ridurre un mondo difficile, complicato, in continuo mutamento a qualcosa di comprensibile come una favola o un film di Hollywood: qui ci siamo noi (il popolo, gli europei, la gente) e lì ci sono gli altri (le élite, i burocrati, gli immigrati).

Le storie sono armi potenti. E non importa se tutti sanno che sono delle bufale. Certo, smascherare i bugiardi è un lavoro importante. Ma non basta dire che una storia non è vera. Anche se tutti sapevano che i “Protocolli dei Savi di Sion” erano falsi, questo non ha fermato l’Olocausto. Non basta dire che una storia non è vera. Bisogna capire da dove viene e perché qualcuno la racconta.

Le storie sono armi potenti. E lo sono soprattutto quando chi le racconta sceglie il momento giusto.

Mentre in quel ferragosto nuvoloso i militanti leghisti coi loro elmi vichinghi mescolano la polenta e attizzano la griglia e Salvini intanto parla coi giornalisti di genocidio degli italiani, c’è una carovana di persone che dalla Macedonia e dalla Serbia sta arrivando in Ungheria. Sono centinaia di migliaia – in prevalenza profughi di guerra siriani. Sono sbarcati in Grecia dalla Turchia e ora cercano disperatamente di raggiungere il Nord Europa. Entro pochi mesi diventeranno più di un milione – la più grande emergenza umanitaria che l’Europa abbia visto dai tempi della Guerra nei Balcani.

Dall’anno precedente è cresciuto anche il numero di immigrati che arrivano sulle coste italiane. In questo momento sono soprattutto famiglie di siriani che hanno cercato rifugio in Libia e che qui hanno trovato un’altra, feroce guerra civile. In un anno il numero di sbarchi è passato da circa 50.000 a 140.000.

Tutte queste cose Salvini le sa bene. E sa che la storia che sta raccontando è un seme che cade in un terreno molto fertile.

Di lì a poco comincerà a parlare concretamente di come fermare questa presunta invasione. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.